14 ottobre 2015

musica – FABIO VACCHI E MICHELE SERRA


FABIO VACCHI E MICHELE SERRA

Vorrei tornare sul tema “musica contemporanea” da me praticamente riscoperta dopo anni di disinteresse – lo confesso – solo la settimana scorsa all’Auditorium ascoltando il melologo “Sull’acqua (sotto di noi il diluvio)” di Fabio Vacchi, diretto da Claire Gibault e recitato da Lella Costa, con un meraviglioso testo appositamente scritto da Michele Serra. L’ho annunciato nell’ultima rubrica con queste parole: “… l’inebriante sensazione di assistere alla nascita di una musica che resterà nella storia, e che fino a un’ora prima non esisteva, potrà sembrare banale ma è stata davvero potente …”.

musica35FBCi torno perché appartengo a quella folta schiera di musicofili che ignorano la musica leggera, non sono attratti dalla musica cosiddetta etnica, sono stati molto presi in gioventù dalla musica contemporanea – incantati da John Cage, da Luigi Nono, da Stockhausen, dalla musica elettronica – dalla quale si sono brutalmente staccati quando è nato il sospetto che “si cercava, si cercava, ma non si trovava nulla”. Ricordo il pensiero perverso che indirizzavo ai compositori contemporanei: lavorate, cercate, sperimentate, e quando finalmente avrete risolto il problema del linguaggio, trovato il bandolo della matassa, e soprattutto scritto un capolavoro, mandateci un segnale e ne riparleremo. Ma forse non era un pensiero così perverso se l’altra sera, ascoltando Vacchi, ho provato – e non ero il solo – la sensazione di ascoltare finalmente un linguaggio nuovo, comprensibile e affabile, e l’emozione di trovarmi faccia a faccia con un’opera che sembra aver già trovato posto nella storia della musica.

In una delle sue belle interviste ai compositori contemporanei (nel volume “Note d’autore” edito da Postmedia books, 2013) Ricciarda Belgiojoso rivolge a Vacchi questa domanda: “E che linguaggi devono usare i compositori per essere ascoltati con semplicità e senza pretese?” La risposta di Vacchi è esemplare: “Non usare trucchi! Andare direttamente a un’espressione chiara, onesta, semplice ma non semplicistica. È pericolosissimo confondere la semplicità con il semplicismo perché sono due cose antitetiche“. E poco prima, a una domanda sui suoi precedenti rapporti con l’avanguardia rispondeva “Mi sembrava, timidamente, che scrivere una musica non destinata all’ascolto fosse un’operazione insensata. Tutt’al più utile per la filosofia, per la storia del pensiero interpretativo del mondo ma che rischiava di uccidere la musica dopo averne aperto i confini e le aspettative. Un paradosso“. Raramente, quando si legge di musica, si trovano parole così concrete e aderenti alla realtà (sappiamo tutti quanto fumosi e ambigui siano i nostri esegeti e critici musicali); Vacchi non solo usa parole chiare ma poi scrive anche musica coerente con quelle parole. Non è poco.

Nel volume “Il mio Liszt” (Bompiani, 2011) Michele Campanella descrive il melologo come “una composizione musicale che commenta un brano di letteratura, quale può essere un poema, un racconto, una poesia in cui la voce recitante e il pianoforte (o, come nel nostro caso, l’orchestra) procedono insieme oppure separatamente, senza alcuna regola predisposta a priori“. Che non vi siano regole lo si dimostra mettendo a confronto due celebri melologhi diversissimi fra loro come l’Enoch Arden di Richard Strauss per voce e pianoforte (che lo stesso Campanella eseguì con Glauco Mauri alla Scala vent’anni fa) e il grandioso Façade di William Walton per voce e orchestra su testo di Edith Sitwell (un’opera spiritosa, ironica, amabile, sorridente, una vera delizia molto difficile da eseguire e dunque da ascoltare) di cui esiste un indimenticabile vinile di almeno quarant’anni fa.

La storia del melologo è molto più lunga di quanto non si creda, ha le sue origini nel Settecento, Mozart dice in una sua lettera che gli piacerebbe scriverne uno (lo chiama in realtà “duodrama” ma poi non lo scrive perché in lui il canto prende sempre il sopravvento sul recitato), è stato praticato da Beethoven, Mendelssohn, Schumann, Liszt (famoso il suo Der traurige Mönch, Il monaco triste) fino a Schönberg e ai contemporanei; questo di Fabio Vacchi non ha nulla da invidiare ai precedenti, anzi mi sembra che finalmente trovi la corda giusta, ne elevi la dignità fino a farlo diventare un’opera importante e completa, non solo per la complessità della scrittura musicale, l’accuratezza dell’orchestrazione, l’uso frequente e incisivo degli strumenti solisti (in particolare il violoncello, cui affida un intrigante incipit), ma anche per la particolare aderenza al testo di Serra.

Il quale testo, peraltro, è a sua volta straordinariamente complesso e sorprendente per la sua attualità e per la sua ricca articolazione. Serra, partendo dalla crisi economica, dall’angoscia della disoccupazione, dallo spaesamento per lo svuotamento delle grandi fabbriche, “sente” – e la musica l’aiuta – la falda innalzarsi sotto la città perché l’industria si è fermata, e immagina già l’acqua zampillare dalle crepe dell’asfalto; e ricorda come la città sia costruita sull’acqua come su un grande lago e come di essa, da sempre, la città viva. Poco a poco si capisce che sta parlando di Milano, dell’area della Falk di Sesto San Giovanni, e tutto prende la piega un po’ giornalistica e un po’ filosofica – anche un po’ moraleggiante – cui siamo da anni abituati leggendo la sua “L’amaca” su Repubblica; alla fine, quando spiega che possiamo salvarci o soccombere in funzione del comportamento che decideremo di assumere verso l’acqua e la terra, il testo prende il respiro di un grandioso Corale e la musica, che ricorda i grandi Oratori classici, diventa sublime.

Non è la prima volta che Vacchi e Serra lavorano insieme: La madre del mostro (il mostro è un ragazzo fanatico “ultra” del calcio) è una loro opera andata in scena al Teatro dei Rozzi di Siena nel 2007. Dopo questo gustosissimo assaggio sarebbe forse opportuno che qualcuno ce la facesse vedere qui a Milano.

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questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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