23 settembre 2015

cinema – LA CALLE DE LA ARMAGURA


LA CALLE DE LA ARMAGURA

di Arturo Ripstein [Messico, 2015, 99′]

con: Patricia Reyes Spíndola, Nora Velázquez, Sylvia Pasquel, Arcelia Ramírez, Alejandro Suárez, Alberto Estrella

 

cinema32FBQuesto film, presentato fuori concorso a Venezia in occasione del tributo per i 50 anni di lavoro del regista messicano Arturo Ripstein, con la bellissima fotografia di Alejandro Cantù, porta in scena un fatto di cronaca che assurge a racconto di un mondo, di una umanità malinconica e disperata. Il film racconta la storia di due coppie: due nani, fratelli, mini lottatori di wrestling, e due prostitute non più giovani che faticano a trovare clienti.

I nani, pur essendo mariti e padri, sono ancora totalmente figli, non mostrano mai i volti che restano celati dietro le maschere da lottatori. Sono legatissimi l’uno all’altro, sono amati dai genitori, e le loro vite, seppur modeste sembrano avere un senso in sé.

Le donne, sfiorite, lavorano per mantenere l’una una figlia e il marito, l’altra l’anziana madre. Potrebbe essere un quadretto piccolo borghese, invece la figlia è una ragazza del tutto indifferente a tutto tranne a sé e ai propri bisogni, il marito è un uomo che ama gli uomini e si traveste con gli abiti della moglie, l’anziana madre, oggetto di amore e odio, è una mendicante, una barbona silente.

Il paesaggio in cui questi personaggi si muovono, reso ancora più realistico dal bianco e nero che evidenzia  ogni crepa delle case, ogni cumulo di spazzatura, che non mostra mai il cielo, ma solo la strada e quel che si vede a livello occhi, è un paesaggio senza tempo. Le riprese mettono in luce le rughe delle donne, le imperfezioni dei corpi, la sciatteria e la povertà degli abiti. I rumori fuori scena sono pochissimi, non c’è musica di sottofondo.

I dialoghi sono spezzati, frammentati, non c’è la fluidità  che può essere data solo dal pensiero di ampio respiro. È un mondo intriso di religione diventata superstizione, di violenza e di amore che sa solo essere ruvido.

Il plot è il fatto di cronaca: le due prostitute, per derubare i nani durante una serata passata insieme in un albergo a ore, li addormentano versando gocce di collirio nei bicchieri dei due clienti. È quello un trucco che hanno utilizzato altre volte con altri clienti e che ha fruttato loro bei guadagni. Peccato che le dosi di collirio, giuste per addormentare uomini normali, siano sovradimensionate per i nani e quindi questi muoiano avvelenati.

È l’ora della tragedia e i personaggi potrebbero essere di Sofocle, o forse meglio di Euripide, un mondo di sconfitti che diventa grande perché resta umano: la madre dei nani piange i suoi ninos, i suoi bambini, e lo fa con un orgoglio, con una forza, con una passione degne di  Andromaca, di Medea; le due prostitute rivelano tutta la loro umanità nel rimanere unite, nel tentare di fuggire insieme, di salvarsi insieme e nell’ultimo disperato gesto di amore in cui una delle due, Adela, usa le gocce che già hanno ucciso i nani per addormentare per sempre la madre, per non lasciarla sola, abbandonata, mostrandole una volta per sempre l’amore e il rispetto che ha per lei. La stessa Adela quando viene divisa dalla sua compagna prova a parlarle, prova a salutarla, non riesce e bofonchiando fra sé mormora: “volevo solo dirle di non disperare … che sono cose del destino … che tutto passa”.

È un film che merita di essere distribuito nelle sale e di trovare un pubblico che ne apprezzi la bellezza e ricchezza etica oltre che estetica.

Tootsie

 

 

questa rubrica è a cura degli Anonimi Milanesi

rubriche@arcipelagomilano.org



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