9 settembre 2015

DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI PARTITI. DECONSTRUCTING PD


Negli ultimi anni il concetto stesso di partito è stato oggetto di critiche serrate – più o meno civili – alle quali, a onore del vero, non si è riusciti a dare una risposta sensata. C’è anche da dire che confutare le tesi che vogliono i partiti in fase di (neanche tanto) lenta decomposizione è sempre più difficile. È una cosa successa un po’ in tutta Europa; e in tutta Europa ci sono state risposte simili ma diverse per contenuti e forma: risposte che sono arrivate dal di fuori dei partiti (M5S e Podemos in Italia e in Spagna), dalla morte dei partiti (Syriza in Grecia) o da partiti che hanno scelto strade diverse (i Verdi, lo Scottish National Party in Gran Bretagna).

03selmi30FBCiò che succede è diretta conseguenza di una proposta politica – penso ad esempio al Pd, ma in generale all’offerta che viene da sinistra (e penso alla sinistra perché è dove mi trovo a mio agio, in realtà il discorso è più ampio e abbraccia tutto “l’arco costituzionale”) – che sembra essere lontana anni luce dalla realtà della società. I giovani, ma non solo, sembrano leggere la realtà con parametri diversi da quelli utilizzati dal partito; il bello (o il brutto) è che l’approccio giusto sembra essere proprio quello loro: mentre il partito si attorciglia in una lotta “tra un passato distante e un passato un po’ meno distante” (S. Moore, “I could pay £3 to have a say, but why would I intrude on Labour’s private grief?“, The Guardian, 22.07.2015), la società guarda in tutt’altra direzione, sviluppando temi nuovi e metodi di discussione e dibattito diversi.

Non credo sia necessario essere movimentisti – io per altro non lo sono – o addirittura accarezzare la pancia del populismo, per osservare la distanza crescente tra la società reale e la società vissuta nei partiti. E non è, mi pare, nemmeno il caso di appellarsi a una maldestra (a essere teneri) applicazione dell’Articolo 49 della Costituzione per spiegare la situazione: sembra proprio un limite raggiunto dai partiti e dalla loro struttura attuale.

Si è quindi di fronte a un bivio: provare a modificare la struttura dei partiti o considerarli ormai perduti e provare a esplorare altre strade? Forse un punto di partenza serio e ben costruito per analizzare e possibilmente risollevare la situazione c’è, ed è il lavoro che Fabrizio Barca sta portando avanti all’interno del Partito Democratico ormai da parecchio tempo, un lavoro che è sfociato nella relazione finale dei Luoghi Idea(li) (per una sintesi vedi le slide).

Il documento è molto interessante perché prova a dare alcune risposte e a proiettare visioni di come evolvere il partito in modo da accogliere le istanze che nascono dal “mondo di fuori”. E soprattutto cerca di (ri)definire il partito: cosa è, cosa dovrebbe essere e come dovrebbe funzionare. Introducendo l’idea interessante, e affascinante, del partito-palestra, un partito di relazioni e reti capace di amministrare e confrontarsi con gli interessi locali portati avanti da associazioni e “società civile”.

Gli aspetti del Pd, e in realtà di un qualunque partito, che vengono presi in considerazione sono 3, come 3 sono le proposte che vengono fatte al partito per avvicinarsi a quell’impianto teorico descritto nel documento. Procedendo in ordine inverso, la prima è una proposta di modifica delle regole di finanziamento pubblico dei partiti, che sono esplicitamente definite e ritenute inique.

La proposta in questione riprende una precedente proposta di Piero Ignazi ed Eugenio Pizzimenti e riprende sistemi già presenti in Europa (va ricordato che in Europa gli unici paesi che non prevedono trasferimenti diretti ai partiti sono Malta, Andorra e la Svizzera – gli ultimi due fuori dall’Unione), correggendo quella che viene ritenuta (correttamente a mio avviso) un’anomalia generata forse più da un ammiccamento al populismo che da una precisa convinzione.

La seconda proposta delinea alcune priorità utili per la nascita di un partito-palestra, priorità che indirizzano la conoscenza e la formazione, lo sviluppo di una struttura nazionale capace di bilanciare e frenare la “deriva feudale dell’assetto territoriale”, e infine “i comportamenti integri di quadri ed eletti”.

Su questo punto non c’è (purtroppo) molto da dire: l’integrità di molti rappresentanti ha lasciato un po’ a desiderare negli ultimi anni (o meglio decenni) ed è difficile negare che la deriva feudale del Partito Democratico (dei partiti?) sia abbastanza evidente. Il pericolo, se non si fa qualcosa, è quello di andare non tanto verso il partito-palestra ma verso un partito-tram.

L’ultima proposta, – forse la più interessante e articolata – delinea un metodo per creare una “Officina per l’attivismo territoriale”, una struttura complessa che dovrebbe permettere di costruire e nutrire la relazione con la società, controllare e fare pressione sull’Amministrazione, e formare i volontari e il futuro personale politico.

L’articolazione della proposta ha il dichiarato obiettivo (ovvio probabilmente) di mantenere un ruolo per il Partito all’interno di un più strutturato sistema di elaborazione e condivisione delle idee che includa e che parta dalla società. Il Partito diventa l’organizzatore, il collante ultimo tra la rete di portatori di interessi locali – quella società che interseca il partito con volontari, intellettuali ed esperti – e l’Amministrazione, riconoscendo il fatto che oggi le idee degne di nota vivono prevalentemente al di fuori dei partiti, in una dimensione che il partito non riesce più a raggiungere, una sorta di “mondo di fuori”.

Ma se ciò fosse l’unica funzione rilevante di un partito, sarebbe ben poco utile; dubito che movimenti, associazioni e “intellettuali” abbiano voglia di interagire con il PD – o con un partito in genere – in un ruolo che sia meno che paritario durante la fase di analisi e sintesi politica (in senso ampio).

Il problema, decisamente più concreto, è quello della fase amministrativa: con maggior precisione la capacità di collegare l’elaborazione di idee e soluzioni all’attività di governo e amministrazione. E in questo campo in effetti l’apporto che il partito può o potrebbe dare (un partito che abbia implementato i suggerimenti dati nelle proposte precedenti) è rilevante e molto probabilmente anche fondamentale, anche se non sono sicuro che il rapporto (tra partito e Amministrazione) sia potenzialmente così fluido come lo si vuole rappresentare nel documento.

Resta una domanda: davvero è possibile arrivare a trasformare il Partito Democratico (ma anche i partiti in genere) in questa direzione? Non sarà anche questo lungo mio intervento un altro momento di autocoscienza “democratica” che poco interessa al “mondo di fuori”? Mentre in realtà la vita politica, sociale e democratica, di sinistra (in senso ampio) aggiungerei anche, sta già imboccando altre strade, prendendo semplicemente atto di un (altro) esperimento non riuscito.

 

Giacomo Selmi



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