9 settembre 2015

LA SCHIENA DRITTA DI MARIS E IL RICORDO DI MILANO


Diceva che i novant’anni li sentiva nella schiena. E basta. Per il resto aveva mantenuto l’entusiasmo di sempre, tipico di chi per la vita e la libertà ha dovuto lottare, ha visto spargere sangue e ha perso molti amici e compagni. Se n’è andato alla vigilia di ferragosto, a 93 anni, in una Milano estiva e silenziosa. La stessa città in cui Gianfranco Maris era anche nato, il 19 gennaio 1921, in corso Buenos Aires, anche se suo padre lo registrò in Comune solo qualche giorno più tardi, così che all’anagrafe risultò del 24 gennaio 1921, data, come amava ricordare, della sua seconda nascita. La terza nascita, invece, diceva sempre Maris, si verificò più tardi, il 5 maggio 1945, quando «arrampicato in cima a una scala di una torretta del campo di concentramento di Mauthausen-Gusen, vidi arrivare una camionetta di soldati americani».

10liva30FBGianfranco Maris è stato molte cose: partigiano, deportato, avvocato, parlamentare del Pci, membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura, vice presidente del Teatro alla Scala, membro dell’Associazione Nazionale Partigiani, presidente dell’Associazione Nazionale ex Deportati. Carica, quest’ultima, che, soprattutto negli ultimi anni, era divenuta una vera e propria missione civile, perché «dal campo di concentramento non esci più. Ti resta dentro», raccontava molti anni dopo le sofferenze di Mauthausen-Gusen, con estrema lucidità agli studenti delle scuole. Era entrato nel lager nell’agosto del 1944, dopo alcuni mesi di carcerazione vissuta tra Lecco, Milano, e Fossoli, ove ebbe modo di conoscere anche Teresio Olivelli, uno dei fondatori de Il Ribelle, noto giornale clandestino diffuso tra Milano e Brescia, voce di libertà che costò a molti la vita o la prigione.

La sua esistenza è stata in particolare caratterizzata da due esperienze forgianti. Innanzitutto i giorni nel campo di concentramento, (raccontati nel libro Per ogni pidocchio, cinque bastonate, Mondadori, 2011), che suscitarono in lui la convinzione profonda di doversi costantemente battere contro l’oblio (da qui il suo secondo libro Una sola voce: scritti e discorsi contro l’oblio, Mimesis, 2012) e contro tutte le manifestazioni sociali e culturali che intaccano il grado di libertà di una comunità: il conformismo, l’autoritarismo, la corruzione. Ma ancor prima, l’incontro fortuito, nel 1938, a 17 anni, con un rappresentante del Pci clandestino a Milano che gli diede da leggere libri di politica e di temi sociali. Raccontava Maris che i libri «avevano tutti il segno di un piccolo timbro con scritto “Ventotene”. Non sapevo nulla di Ventotene. Seppi più tardi chi era quel ragazzo. Mi presentò Vittorini, Steiner, altri uomini di cultura. La mia fu un’adesione di fatto». Un’adesione che nacque da episodi, come quello del congedo dal liceo Carducci di Milano di un suo insegnante, il quale, salutando i suoi alunni, confessò loro che non sarebbe più potuto entrare a scuola, perché appartenente a un’altra razza.

Anche la scelta di giurisprudenza e della professione forense fu, in qualche modo, una scelta di campo. Già, perché per Maris fare l’avvocato penalista significava mettere la propria professionalità a servizio delle persone, davanti a un giudice imparziale e sulla base delle regole dettate dal legislatore, rispetto a cui tutti (a cominciare dal collegio giudicante), sono soggetti. Purché però quelle persone fossero sincere perché, diceva ancora Maris «se il cliente pretendeva difese assurde, mi rifiutavo. Quello che gli dicevo era: io posso fare una difesa tecnica, ma lei non può negare il fatto». Incappò in non poche polemiche per aver accettato di assumere la carica di difensore d’ufficio di Leonardo Marino, il quale aveva confessato di aver partecipato all’omicidio del commissario Calabresi. Di questa vicenda, Maris raccontò sempre di aver accettato la richiesta – del tutto casuale – del pubblico ministero solo dopo aver studiato le carte e parlato a lungo con Marino, di cui aveva verificato una certa credibilità. Non si può escludere però che la sua decisione abbia trovato linfa anche nella convinzione che la garanzia di un giusto processo e il diritto di un’adeguata difesa siano principi rispetto a cui nessun avvocato può ritrarsi. A cominciare da chi, evidentemente, di processi arbitrari o fasulli ne aveva visti molti durante il regime.

Era una personalità autorevole ma allo stesso tempo non ingombrante. Milanese fino al midollo, dotato di una sottile ironia e di una memoria granitica che gli permetteva di raccontare con estrema lucidità una vita intensa, le cui pagine meritano di essere rilette molte volte. Esse sono, infatti, intrise di coerenza, passione civile, integrità morale, sete di libertà: un lascito prezioso giunto in dono da parte della generazione cui anche Maris apparteneva e in cui Milano si riconosce ancora, nonostante tutto. Ecco perché per chi della memoria ha fatto una bandiera, non pare azzardato immaginare che la sua città gli possa dedicare una strada, una piazza, un giardino. Un piccolo modo per colmare una grande mancanza, sapendo che anche i simboli hanno un valore e l’oblio è una presenza minacciosa per la nostra società, affascinata dal mito dell’accelerazione e poco incline a fare memoria.

Martino Liva

 



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