8 luglio 2015

UN PAIO DI QUESITI IRRISOLTI DELL’EXPO


Da queste pagine Marco Ponti ha avuto il coraggio di criticare la genericità delle Carta di Milano e Salvatore Veca ha schivato il colpo ricorrendo alla complessità e varietà di possibili soluzioni. A loro abbiamo, da queste pagine posto due domande che attendono ancora una risposta.

All’impavido sostenitore dell’approccio più operativo va tutta la nostra gratitudine per aver aperto il confronto. A lui chiedemmo allora “come si può concepire un processo d’innovazione di un sistema vivente capace di includere la rigenerazione dei metabolismi e delle risorse ambientali e sociali in trasformazione?“. La trasposizione in agricoltura dei paradigmi di una tecnologia concepita per produrre manufatti artificiali e inanimati ci sembra, infatti, la più potente e nello stesso tempo più rischiosa delle operazioni che l’umanità possa fare allo scopo di nutrirsi. Marco Ponti conosce di certo il punto in cui è giunta la rivoluzione verde. In poco tempo e senza preoccuparsi dei consumi di risorse non facilmente rigenerabili, si può anche aumentare del 200%, la produttività dei terreni ma poi si devono subire le reazioni nell’ambiente naturale e sociale. Forse è l’abitudine ad applicare una logica produttiva “lineare” e “di prodotto” a ciò che “lineare” e “prodotto” non è a ridurre la possibilità di trovare soluzioni appropriate. Perché dunque non scendere anche su questo terreno?

Al filosofo sotto attacco ci permettemmo invece di chiedere “come sia possibile evolvere la nostra Hybris senza ricorrere all’animismo o alla demagogia“. Salvatore Veca sa benissimo che l’atteggiamento aggressivo nei confronti della natura è uno dei pilastri su cui si fonda il nostro pensiero occidentale. Conosce bene le problematiche più attuali e dirompenti della nutrizione che edita spesso e con coraggio la Feltrinelli. Perché dunque è così difficile affrontare un quesito sulla grande Hybris dell’occidente? Il buon Eraclito ci avvertiva già tremila anni fa sulla necessità di spegnere l’incendio rappresentato dall’eccesso di aggressività della nostra potenza tecnologica ma non il fuoco della conoscenza che ci dà la vita. Oggi sembra essere vicino il momento in cui l’eccesso scatena il dramma irreversibile accanto al suo fantastico spettacolo. Anche i popoli più ricchi del pianeta ne vedono i segnali dall’alto delle loro allegre sazietà. Dovremmo dunque evitare di ritrarci e darci da fare tutti per capire come e se possiamo ridurre, contenere e governare gli eccessi e procedere spediti oltre alle poco efficaci esortazioni moralistiche.

Forse però i quesiti di un semplice cittadino non sono sufficienti per far proseguire su queste pagine un dibattito che potrebbe aiutare a riempire di sostanza ulteriore questi pochi mesi in cui i riflettori di una parte del mondo si sono accesi sulle necessità della sua nutrizione.

Mi permetto quindi di sottoporre all’attenzione di entrambi e dei lettori di ArcipelagoMilano un libro appena stampato da Cortina. Si tratta di “Zolle. Un libro di storie di tuberi, graminacee e terre coltivate”, per capire l’agricoltura. La presentazione è avvenuta di recente nel verde intenso dell’Orto Botanico di Brera. Sono 197 agili pagine scritte da Stefano Bocchi in un periodo in cui agli occhi di non pochi osservatori l’Expo sembra aver bisogno di apporti culturali seri che sappiano andare oltre i suoi Padiglioni.

L’operazione è perfettamente riuscita e Zolle ci conduce con mano sapiente a riflettere sull’attualità rispettando tutti i canoni della ricerca e divulgazione scientifica. Tra le sue pagine si risente pulsare la tradizione della miglior agronomia italiana fatta da ricerche tanto straordinarie quanto silenziose e di profonde riflessioni sulla terra che aprono l’orizzonte oltre l’aspetto tecnico per fare luce sulla storia e la natura dell’umanità. Questo libro ci ricorda personalmente per molti aspetti le opere di Giovanni Haussman e il suo costante sforzo di collocare lo sviluppo dell’agricoltura e della terra nel contesto culturale e storico delle comunità. Per entrambi la terra coltivata non appare mai come un’ancella mansueta e dipendente dal volere degli umani ma emerge con la forza spesso incontenibile di levatrice naturale; ‘placenta‘ e ‘paesaggio‘ di civiltà.

Con precisione di dettagli rilevanti e sorprendente agilità narrativa l’agronomo milanese ci racconta una storia dell’umanità che “rompe gli equilibri naturali, che cambia la struttura del sistema e con l’intensificazione agronomica allontana l’agro ecosistema dal suo antenato ecosistema naturale che per sempre sostituisce.“. Una scelta originata e forzata dai cambiamenti climatici che corre dalla domesticazione alla coltivazione interagendo con le forme di civiltà che si susseguono con i loro apporti innovativi, fino a giungere alla rotazione delle colture che l’autore definisce come la più grande innovazione nella storia dell’agronomia. Si giunge così all’attuale fase di massima espressione di una rivoluzione verde dagli incrementi strepitosi di produttività ma anche dai preoccupanti effetti sull’ambiente e la fertilità.

Per oltrepassare la soglia del “che fare” il nostro scienziato usa l’arma che gli è più congeniale e che è quella dell’innovazione. In fondo, tutto il libro è storia d’innovazione e anche quella attuale è esaminata con attenzione. Emerge così la penna non più dello storico ma dell’agronomo moderno immerso in un processo che sente suo e che considera giunto a un punto di svolta cruciale. Il libro non descrive il passaggio dall’innovazione di sostituzione o di prodotto a quella agro bioecologica e approda in quella che definisce “di sistema globale“.

L’Autore sembra volerci dire che non si esce dai pericoli se non si prende piena coscienza della natura culturale, economica, politica e di sistema dell’agricoltura. L’invito è di mettere le mani sulle connessioni che legano la domanda e l’offerta a partire dai bacini alimentari metropolitani e di farlo coinvolgendo produttori, enti, associazioni, imprese, centri di ricerca, università e consumatori.

Il rispetto per la natura che ci vuol comunicare Bocchi si unisce così al richiamo che anche Papa Francesco, partendo dalla sua ottica religiosa, sta inviando al mondo con l’enciclica “Laudato si”. La coincidenza temporale è impressionante, non pochi passi di quel testo si ritrovano nel libro in questione. È come se Scienza e Religione si confrontino sullo stesso tema unite da un filo invisibile. Un campo di connessione ai limiti del sacro di cui ho percepito l’esistenza nel momento in cui uscivo dall’oasi verde di Brera all’ombra dei due ginkgo biloba più antichi d’Europa. Due testimoni di una specie nata 200 milioni di anni fa. Due magnifiche ‘piante della vita‘ che osservano dal 1700 in silenzio la città. C’è molto da imparare da questi “fossili viventi” capaci persino di sopravvivere alle radiazioni prodotte dalla bomba atomica sganciata dagli umani su Hiroshima.

 

Carlo Alberto Rinolfi

Mondohonline



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali



Sullo stesso tema








20 gennaio 2016

TRAIETTORIE: EXPO, DONNE, POTERE, LIBERTÀ

Giulia Mattace Raso



12 gennaio 2016

EXPO DOPO EXPO: SEI ANNI DOPO

Valeria Bottelli



16 dicembre 2015

NEBBIA SUL DOPO EXPO

Luca Rinaldi



10 dicembre 2015

DOPO EXPO. MA COSA SERVE A MILANO?

Lanfranco Senn


Ultimi commenti