24 giugno 2015

LE CONSEGUENZE DELLA PARTECIPAZIONE


Una pur superficiale indagine sulle parole maggiormente ricorrenti nel lessico dei politici (siano essi impegnati nell’arena nazionale o in quelle locali) come in quello degli analisti e dei commentatori d’occasione rivela che «partecipazione» si colloca tendenzialmente fra quelle che, prima o poi, vengono utilizzate per connotare (o criticare) un corso d’azione orientato (o non sufficientemente) a definire uno o più processi decisionali correlati all’avanzamento della qualità del discorso pubblico e della democrazia.

Primarie per la scelta dei candidati alle elezioni politiche o amministrative, cantieri, fabbriche, officine, comitati, stati generali sono andati nel tempo configurandosi come strumenti per sollecitare il coinvolgimento dei cittadini in processi che, di frequente, vengono presentati come vettori di un cambiamento sempre vagheggiato e ormai prossimo che non può rinunciare al loro protagonismo in qualità di co-costruttori.

04_ciardiello24FBA titolo di esemplificazione (in quanto numerosi potrebbero essere i riferimenti anche risalenti nel tempo) e solo per ragioni di stretta contiguità con l’attualità, pochi hanno notato (o scelto di non enfatizzare) che le contingenti turbolenze generate dall’annuncio del governo di voler procedere in tempi rapidi alla riforma della scuola sono state precedute da quella che, nel sito istituzionale, viene definita «Una grande campagna d’ascolto, in cui coinvolgere tutti, per disegnare la scuola che verrà» e nelle slides che ne sintetizzano gli esiti «la più grande consultazione d’Europa». E a supporto dell’affermazione di tale primato vengono elencate con dovizia di particolari le cifre, una imponente mole di dati categorizzati attraverso il ricorso alla linguistica computazionale, che ha consentito «di sapere cosa [i cittadini] hanno discusso» e di conseguire «un ottimo arricchimento della proposta».

Certo, nel «patto di partecipazione» era precisato «La consultazione pubblica… non è un referendum o uno degli strumenti di iniziativa popolari a cui il nostro ordinamento attribuisce un valore vincolante». Come sarebbero stati utilizzati i contributi dei cittadini è spiegato nel periodo successivo: «… i suoi risultati integreranno, all’interno di un quadro di lavoro i cui cardini sono chiari… ad esempio attraverso azioni progettuali, linee guida, protocolli d’intesa, bandi e altri strumenti».

Una domanda, tra le tante, si impone: come mai l’esito della consultazione più grande d’Europa è stata accolta da così ampie e generalizzate critiche, unendo studiosi (Tullio De Mauro in primis) e addetti a vario titolo ai lavori? Si è andati da chi ha scelto di non partecipare alla consultazione «perché riteniamo che il modello di scuola proposto come «la buona scuola» non sia emendabile o oggetto di una discussione in quanto del tutto estraneo a qualsiasi idea di una scuola democratica, pubblica, laica, inclusiva, come prevista dalla Costituzione» a chi, sintetizzando le ragioni di chi è sceso in piazza o semplicemente commentato il progetto, reputa che la Buona Scuola sia soltanto il prodotto di un «marketing narrativo che accompagna un progetto di modernizzazione della scuola, sentito come una privatizzazione diretta dall’alto e senza autentico ascolto per chi vive e lavora nel mondo della scuola».

Passando dalla scala nazionale a quella locale, e, nella fattispecie, milanese, accenti non dissimili è possibile rinvenire in molti testi che affrontano il rapporto fra il promesso cambiamento dell’approccio all’amministrazione e partecipazione dei cittadini.

Nel testo che sintetizza «cosa è andato bene e cosa no in questi quattro anni di mandato» nell’ambito dell’iniziativa dei ComitatixMilano in vista delle elezioni amministrative del 2016 (#allamiacittànonrinuncio) fra gli aspetti definiti come negativi c’è il non essere andati oltre l’ascolto («il livello 0 della partecipazione») che «non ha inciso sul processo decisionale: la giunta decideva, a volte comunicava le decisioni prese, a volte neppure comunicava (es. ciclabile di viale Tunisia…; quartiere Rizzoli….)».

E, risalendo nel tempo (2012-2013), il Gruppo interzonale sulla partecipazione degli stessi ComitatixMilano affermava «C’è una crisi di fiducia fondamentalmente basata sul fatto che non c’è partecipazione e non si sanno le cose».

Ancora, nel documento che sintetizzava gli esiti della prima «Due giorni per Milano. Riflessione e confronto per una città partecipata» (2011) si può leggere: «Milano nel 2016 sarà una città partecipata se i cittadini avranno avuto ambiti per incontrarsi e confrontarsi su problemi specifici della comunità cittadina tra loro e con la pubblica amministrazione (processi di partecipazione alle scelte)».

Arrivando alle conclusioni di questo contributo (e in continuità con quello ospitato da questa rivista nel 2014), le vicende nazionali e quelle meneghine (nonché l’intensificarsi dell’astensione dal voto registrato al termine della recente tornata elettorale) impongono una riflessione non estemporanea su quelle che, parafrasando il titolo di un celebre film di Sorrentino, definiamo come le conseguenze della partecipazione che si instaura in condizioni di squilibrio fra governo e cittadini con evidente supremazia del primo sui secondi. Per riferirsi a tale partecipazione Gangemi (2009), impiegando un’espressione coniata da Arnstein, parla di tokenism, «termine con cui si intende la pratica di produrre i vari tipi di moneta che non hanno in sé valore – i soldi del monopoli, i gettoni per i giochi d’azzardo come il poker, etc. – ma hanno valore solo nel contesto in cui sono usati …». Lo stesso autore, per esemplificare icasticamente la sfiducia nei confronti dei politici che, negli anni ’60, invitavano alla partecipazione «e, spesso, finivano per manipolare ad altri scopi le motivazioni ideali di chi partecipava», trascrive il manifesto divenuto popolare in tutto il mondo dopo il maggio francese del 1968: «Je participe, tu participe, il participe, nous participons, vous participez, ils profitent» (ibidem).

Superare il tokenism e impegnarsi nella costruzione di nuovi equilibri tra partecipazione e rappresentanza costituisce la nuova frontiera della democrazia. Tale impegno deve configurarsi come elemento strategico quanto ordinario di un fare politica promosso e sostenuto dalle istituzioni. A condizione che delle voci dei partecipanti al dialogo si faccia un uso competente quanto scientificamente adeguato all’oggetto dei processi partecipativi sfociando nella generazione di regole discendenti non dall’aggregazione delle preferenze, ma dalla loro trasformazione attraverso il dialogo stesso.

L’alternativa potrebbe diventare la speculare impotenza dei cittadini e dei governi magistralmente descritta da Saramago nel “Saggio sulla lucidità“.

 

 

Patrizia Ciardiello



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