24 giugno 2015

ROM CASE POPOLARI LA CLASSIFICA DEGLI ESCLUSI


«Vogliamo una casa pulita, che non sia connotata come rom, dove possiamo vivere una vita normale». Se le cose fossero semplici, basterebbe seguire la richiesta che arrivava, dopo un sgombero di un campo rom di Milano, da parte di un giovane manutentore di ascensori. Il caso viene citato nella Casa della Cultura di Milano, da parte dell’architetto Jacopo Muzio. Si parla del tema che sta riempiendo le pagine di giornali, senza che nessuno voglia seriamente approfondire la questione. All’incontro partecipano tre architetti, un sociologo, due rappresentanti di associazioni che lavorano nell’assistenza ai rom e una decina di rom del campo di Chiesa Rossa, nella parte sud di Milano.

07patti24FB«La qualità ambientale aiuta l’integrazione – continua da dietro il palco dei relatori Muzio, l’architetto, che collabora con la Facoltà di architettura del Politecnico di Milano -. Bisogna stare dalla parte di quel ragazzo. La Francia ha costruito case popolari, evitando di fare ghetti. Questa è l’unica proposta possibile di integrazione per le minoranze: costruire case popolari per tutti. Il tema, per i rom, è favorire la permanenza nello spazio interno, piuttosto che di una dimensione effimera».

Purtroppo le cose non sono così semplici. Al termine di tre ore di discussione molto franca alla Casa della Cultura, si esce con una sola certezza, su cui tutti sono d’accordo: la necessità di chiudere i campi più disastrati, dove trionfa l’illegalità e non ci può essere alcuna prospettiva di miglioramento. Al di là di questo punto fermo, ce ne sono ben pochi. Le stesse parole hanno significati doppi. “Sicurezza” è una di quelle più citate, ma per indicare la richiesta da parte dei rom che tutto quello che hanno non venga distrutto. “Relazioni familiari” o “emancipazione”, “integrazione” o “identità” sono altre parole che sottendono concezioni del presente e del futuro non conciliabili alla leggera.

Soprattutto, per scendere nel concreto, la composizione dell’universo “rom” è talmente varia per provenienza, religione, percorsi più o meno avviati, che mettere tutto insieme non serve. Così come non serve negare i problemi, a partire da quelli legati alla criminalità, e avere atteggiamenti paternalistici. «Finché mettete tutto insieme questa discussione è inutile», è stata una delle prime parole di uno dei ragazzi rom intervenuti. Quello che si ricava, a mezzanotte passata, è che per trovare delle soluzioni bisogna fare qualcosa che viene rifiutato sempre più categoricamente dalla stampa e dalla politica: accettare la complessità del tema e proporre soluzioni diverse per situazioni diverse. E soprattutto, via ancora meno popolare: non avere fretta, perché non è un problema risolvibile nei tempi stretti su cui ragionano i politici in cerca di rielezione.

Per rendersene conto basta sentire le parole del professor Antonio Tosi, professore di sociologia urbana e di politiche della casa nella facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, che da decenni si occupa della questione rom. «Non avrei mai pensato, 20 anni fa, di difendere i campi rom. Ma il momento è così teso che dobbiamo ripensare il dibattito. Dire “no campi, sì case” si scontra con alcune realtà, la prima delle quali è che le persone soggette a sgomberi sono molte di più di quelle a cui viene offerta una casa». Il punto è però soprattutto un altro. «L’insediamento abitativo è difficile, per varie ragioni – spiega Tosi -. La prima è che ci sono situazioni fragili, precarie, che sono maggioritarie. Se faccio un insediamento abitativo con persone che una volta avuta una casa non hanno altri problemi è un conto. Se invece ci sono situazioni di precarietà è molto più difficile. È una fragilità che si protrae dopo che l’inserimento abitativo è avvenuto».

Non è un caso che i programmi di assegnazione delle case popolari diano priorità a chi ha già più stabilità, in genere perché ha un lavoro. Inoltre si chiede il rispetto delle regole delle case, che sono diverse da quelle dei campi rom. «L’insieme di questi due requisiti ha una conseguenza – continua Tosi -: le condizioni di maggiore disagio tendono a essere escluse. Che delle persone siano escluse da un programma ci può stare. Ma se “tutti” i programmi li escludono si pone una questione: che cosa ne facciamo di questi? Essendo un programma che si basa sulla sicurezza e contro la criminalità, questo meccanismo lascia fuori i più “pericolosi”».

Anche inserire tutti i rom in case popolari non è la soluzione e per spiegarlo il professore cita il caso di Torino. Dopo uno sgombero tutta la popolazione di un campo fu inserita in case popolari. «Il risultato è stato che … per continuare a leggere su LINKIESTA clicca qui

 

Fabrizio Patti

 



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