27 ottobre 2009

10 GRADI KELVIN. IL CALORE UMANO E LA PASSIONE DEL SINDACO MORATTI IN CONSIGLIO COMUNALE.


 

“E nui passammo e ‘uaie e nun puttimmo suppurtà

e chiste invece e rà na mano s’allisciano se vattono se

magniano a città” (Pino Daniele,1977)

 

I libri su Milano sono ormai così numerosi, da costituire quasi un genere letterario; solitamente di natura deprecatoria, o quantomeno interrogativa: “Per quale ragione, la ricca e orgogliosa Milano, già “capitale economica” del paese (per non toccare lo spinoso tasto della “capitale morale”) oggi sembra essere una città infelice, o meglio una città d’infelici?”. Una città ricca certo, ma popolata da persone insoddisfatte, perse dietro un passato glorioso sfavorevolmente confrontabile con le condizioni attuali. Partiamo, tra i molti, dal classico di John Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città (Feltrinelli, 2001) in cui lo storico inglese immigrato e insediato dalle parti di Piazza Lugano, ricostruisce il passaggio dalla Milano industriale a quella del terziario, visitando con amore etnologico tutti i luoghi del discorso sulla città (pp. 14-30): dalla nebbia alle case di ringhiera ai “danee” e Piazza affari, a Piazza Fontana a Scerbanenco a Corso Sempione e Arcore passando per il Palazzo di Giustizia.

Non è certamente un libro laudativo, ma è molto moderato, quasi ottimista, rispetto ad alcune opere uscite di recente che, da vari punti di vista, offrono un’immagine sempre più drammatica della città, peraltro riecheggiando quel che si sente dire più o meno dovunque. Segno comunque che negli ultimi otto anni le cose non sono migliorate. In sintesi John Foot descrive l’incapacità della classe dirigente milanese nella gestione della trasformazione da città prevalentemente industriale a città a economia terziaria. Questa è certamente un’osservazione esatta, ma forse quasi tautologica: occorrerebbe fare un passo più in là e scovare le radici di questa incapacità.

Per cercare qualche risposta andiamo innanzitutto a Palazzo Marino, dove dovrebbe trovarsi il cuore di Milano, quel cuore in mano di cui si è sempre favoleggiato nell’immagine popolare della città. Il sindaco Letizia Moratti alle ore 15 un punto del 21 Ottobre 2009, presenta il suo “discorso sullo stato dell’Unione” – prodromo, quasi certamente, alla sua candidatura per un secondo mandato. Il clima nella sala del consiglio comunale è gelido: se i consiglieri dell’opposizione non fossero lì a presidiare l’istituzione, e anche a cogliere l’occasione per fare un bel discorso, il Sindaco di Milano avrebbe subìto l’onta di doversene andare a casa con la sua cartelletta sotto il braccio, perché ben 13 su 31 (abbastanza per far mancare il numero legale) dei consiglieri di maggioranza avevano disertato l’importante occasione. Ma se alziamo un po’ gli occhi dai banchi del consiglio e guardiamo in giro non sentiamo molti battiti del cuore milanese.

Il maggiore costruttore della città, il noto Ing. Ligresti, ha puramente e semplicemente chiesto che il Sindaco venga mandato a casa e che il Comune di Milano (la grande città di Milano!) venga commissariato – poco importa che si tratti di una mossa tattica in un gioco di ricatti, l’iniziativa la dice lunga sullo stato delle cose. Un altro importante costruttore, Zunino (che una volta mi disse “io per meno di un milione – o forse erano 10? – di mq non mi muovo neppure”) che aveva avviato il progetto Santa Giulia con grandi architetti e fanfare di ogni genere, che prospettavano una sorta di Gold Coast milanese, è finito in un totale sfascio, creando in luogo di una gated community per ricchi, un altro terrain vague, solo in parte riscattato dalle brave cooperative. L’impresa incaricata delle bonifiche di Santa Giulia (e molte altre) subisce un’incursione della magistratura e delle forze dell’ordine che arrestano importanti personaggi della maggioranza lombarda con accuse pesanti, profilando una rete di corruzione profonda e quasi senza speranza.

Sulla questione della speranza lascia poche illusioni, Il crollo delle aspettative, il titolo di un altro libro di Luca Doninelli (Garzanti, 2005) che scrive: L’emblema di questo crollo si trova in quello che io chiamo «il grande sterro»: un’area piuttosto limitata, popolata di erbacce, sottoponti, locali fighetti, ritrovi per giovani rampanti, cavalcavia pedonali da periferia sperduta, ristoranti modaioli, nella quale si può toccare con mano il tiepido abisso in cui l’assenza forzata di un progetto credibile e la quasi impossibilità – culturale e storica – di reperirne uno in tempi ragionevoli ha sospinto una delle città più importanti e, purtroppo, più complicate d’Europa. È l’area che comprende le ex Varesine, la stazione di Porta Garibaldi, fino alla porta omonima, che include il brevilineo Corso Como. Qui una Milano da happy hour si scontra, nel giro di pochi metri, con tutto ciò che avrebbe dovuto essere, e che la parola «centro direzionale», espressione dal meaning ormai pesantemente nostalgico, riassume alla perfezione.

Cito solo altri due titoli, uno che va letto perché presenta con grande maestria la faccia di una Milano oscura, a volte feroce e anche sordida, che si contrappone alla vulgata di una Milano solare, La città degli untori, (Garzanti 2009) che ho già commentato altrove (Il Corriere, 21 Agosto 2009) e un secondo che non raccomando di leggere se non a un lettore disposto a una lunga avventura in un mare di dettagli, peraltro assai utili per ricostruire i fatti, Milano da morire, di Luigi Offeddu e Ferruccio Sansa (RCS, 2007; ne approfitto per elevare una sommessa protesta all’editoria italiana. Come si fa a stampare un libro di questo tipo che è quasi un data-base, senza l’indice dei nomi? Tanto più oggi che con i word processors l’operazione è facile). Dalla “Milano dopo il Miracolo” alla “Milano da morire” il piano inclinato è evidente.

Sentendo questo vento il Sindaco di Milano cerca il rilancio: “Vogliamo una città nuova, capace di darsi una nuova configurazione, di assumere un nuovo ruolo sulla scena nazionale e internazionale. di valorizzare le sue mille anime. Vogliamo rafforzare un nuovo orgoglio della città, un nuovo (come ha detto qualcuno) patriottismo milanese basato sulla valorizzazione delle sue mille anime. Motore di questa trasformazione sono soprattutto le donne di Milano.”

Di là dal linguaggio ormai quasi obbligatoriamente vacuo (“nuova configurazione”, “le mille anime”, “la città nuova”, Ssee! E i vecchi dove li mettiamo?) sorprende che il Sindaco Moratti nella sua carriera di laureata in Scienze politiche non abbia mai inciampato sulla frase di Samuel Johnson (attribuitagli da Boswell) “Patriotism is the last refuge of a scoundrel” resa famosa, in anni più recenti, da Stanley Kubrick, nel battibecco finale tra Il generale George Broulard (Adolphe Menjou) e Il colonnello Dax (Kirk Douglas) in “Orizzonti di gloria”. Ma cosa voleva dire Sam Johnson? Ricordava semplicemente che chi tira in ballo la patria, o dio, o la lotta di classe o qualsiasi altro grande valore, spesso e volentieri lo fa per creare una situazione emotiva in cui poi chi dissente viene immediatamente bollato come antipatriottico, cioè nemico di tutti. Se critichi sei un traditore. Probabilmente un altro autore che i docenti di Via Conservatorio si sono dimenticati di far studiare alla loro allieva è Karl Mannheim, che spiega molto bene come questa sia la tendenza della classi padronali che interpretano ogni critica come una “pugnalata alla schiena” (Dolchstoßlegende). “Mi remano contro”, “Non disturbate il manovratore” dicevano ai tempi del Crapone: e s’è visto.

Nei vecchi avanspettacoli, quando il pubblico languiva, l’empresario attaccava “Per le strade, per le vie di Trieste… “e via con le ballerine in pedana con il tricolore e anche il Sindaco Moratti ha cercato di mandare in pedana le ballerine chiamando a raccolta le donne di Milano. Al di là della grana grossa dell’invocazione di maniera (ci sarà stato il solito guru che avrà sicuramente detto, “mi raccomando faccia riferimento alle donne! Fa sempre effetto”) non si capisce davvero il senso di questa sviolinata. Quali donne? Le badanti e le badate, che rappresentano un bel pezzo della realtà milanese? Le insegnanti delle scuole che devono portare da casa la carta igienica? Le colf senza permesso di soggiorno che hanno paura di prendere i mezzi pubblici per non essere rastrellate da una polizia locale che, anche nel vestire, assomiglia ogni giorno di più agli scherani di Doctor No? Oppure le rappresentanti del sciurettismo milanese che si trovano a prendere il tè dal Sant’Ambroeus? Credo che uno dei risultati più certi nell’immagine del sindaco Moratti sia stato quello di far sembrare umano il Sindaco Albertini. Ma al di là della vicenda morattiana, che forse rappresenta il punto di massimo distacco tra politica e polis finora raggiunto a Milano, dobbiamo chiederci di nuovo cosa non funzioni in questa ricca e infelice città.

Ci da una mano l’interessante libro di Marco Alfieri (La Peste di Milano, Feltrinelli, 2009) che ci aiuta capire come mai il Sindaco Moratti che è stato indubbiamente molto capace nella mobilitazione che ha portato alla vittoria di Milano al BIE, il giorno 28 marzo 2008 abbia cominciato a perdere terreno praticamente dal giorno dopo. In generale io credo che il tipo di stile politico impersonato dal nostro Sindaco è uno stile di chi riesce bene, a vendere ma non altrettanto a consegnare. Più nel dettaglio, se seguiamo il racconto che fa Alfieri, ci sono probabilmente due importanti fattori. Primo la vittoria di Parigi è stata un gioco di squadra nel quale, con un efficace D’Alema agli Esteri (ma non solo con lui), il centrosinistra ha appoggiato onestamente e generosamente l’iniziativa Morattiana. Si può dibattere a lungo sulle ragioni, ma così è stato senza alcun dubbio.

Visto quel che è successo dopo c’è da domandarsi seriamente se un governo Berlusconi avrebbe fatto altrettanto. Io dico di no, per una ragione molto semplice: Berlusconi non avrebbe mai giocato da spalla a Moratti. Non solo, ma non appena si è profilata la possibilità che la cometa Moratti si alzasse troppo sull’orizzonte, magari con una traiettoria rivolta al centro del sistema e sostenuta dalla maggiore presentabilità sul piano internazionale, sono partiti i razzi intercettori contro l’Expo – non diversamente da quel che sta accadendo in questi giorni con Tremonti. (Vedi il mio “Avere a cuore le cariche”, Golem l’indispensabile, 1 Maggio 2008) E’ nella natura del potere monocratico di Berlusconi, di non rischiare di essere appannati da un competitore interno al proprio schieramento: Bossi va bene perché è di nicchia.

L’altra causa risiede nella filosofia stessa del Sindaco e del suo gruppo. Tutti i politici sono attenti all’immagine, va da sé, ma questo sindaco è totalmente conquistato dall’idea che l’opinione pubblica possa essere manipolata ad infinitum. Quel che conta è la comunicazione, l’intendance suivra…. E’ quel che Marco Alfieri chiama, a ragione, uno stile “padronale”, ma che è di derivazione bonapartista o gollista: le riunioni non si fanno in Consiglio comunale o in giunta; l’amministrazione comunale è una mucca da mungere in termini di sistemazione dei propri fedeli (come viene spiegato in pagine e pagine documentatissime -pp. 15 e sgg.- da Offeddu e Sansa), in barba alla meritocrazia famosa sventolata dal già Ministro Moratti a ogni piè sospinto. Ma qui si capisce che manca alla Signora Brichetto Moratti e ai suoi la conoscenza di un teorico importante che si chiama Amartya Sen, che spiega molto bene come le situazioni monocratiche siano assai meno efficienti di quelle democratiche, soprattutto in tempi di crisi.

Certo la democrazia è un po’ più costosa per i leaders, che devono dedicare molto tempo a parlare con tutti (chi ha la mia età ricorda bene le ore che Aniasi e Tognoli passavano a ricevere nel loro ufficio ogni genere di persone, senza escludere il comune cittadino). Ma il leader che disprezza questa attività e che scambia il Comune per un’altra delle sue aziende avrà poi quasi sempre delle brutte sorprese. L’operazione chiave della buona amministrazione, come suggerisce il sociologo Michel Crozier (altro studioso che evidentemente non s’insegnava in via Conservatorio) è l'”écouter”, ma si deve ascoltare per capire e per venire incontro, non per manipolare come fanno i drogati dei sondaggi.

Il politico Zelig, come Berlusconi, che fa l’amicone di tutti, a un certo punto deve rientrare nel castelletto delle promesse. L’impressione generale è che Moratti sia molto brava a promettere, ma non altrettanto brava a mantenere e che la differenza tra ciò che fa e ciò che dice sia molto forte. Già ai tempi del MIUR era stata pubblicamente tacciata di “bugiarda” da Walter Tocci, per la sua fantasmagorica abilità di far girare cifre senza fondamento – un’accusa che è stata ripresa da Marco Travaglio di recente. L’ECOPASS è un esempio clamoroso: venduto come la panacea per molti mali è stato realizzato in un turbinio di compromessi, furbatine all’italiana, stemegnerie alla genovese e improntitudini alla milanese. Risultato: tanti soldi spesi e un pugno di mosche in mano (vispe nonostante l’inquinamento). Eppure era, in principio, una misura che aveva trovato un buon consenso anche di là da una stretta cerchia di sostenitori del sindaco, anche se con la feroce opposizione di altri gruppi che la ritenevano contraria ai propri interessi e le perplessità di molti esperti che si rendevano benissimo conto che una soluzione di facciata si sarebbe risolta in un gigantesco spreco di soldi. Embè? Sento dire, questa è la condizione normale della politica locale e più in generale della politica. Vero, verissimo, ma non è nei problemi che sta il baco (i problemi di Milano sono più o meno quelli di tutte le grandi città) bensì nelle soluzioni proposte.

La politica è sempre una attività di compromesso o meglio di composizione tra interessi e posizioni diverse, ma non può fermarsi allo scambio di favori tra gruppi diversi, un tot a me e un tot a te pesati sui bilancini dei sondaggi (contro l’interesse della mia professione raccomanderei un anno bisestile senza sondaggi i cui pericoli sono ben raccontati da Paolo Natale, Attenti al sondaggio, Laterza 2009). Se ci si limita alla pure e semplice logica del do ut des si cade rapidamente nel “dilemma del prigioniero”, che è esattamente la situazione della politica milanese, in cui la razionalità dello scambio puro porta allo stallo. La leadership politica deve fornire una sintesi, una visione, deve proporre idee, non vacue parole o promesse. Come diceva Bernard Shaw (o Bertrand Russell o qualche altro, non importa, andatevelo a cercare su Google) se io scambio una mela con te, alla fine ognuno dei due avrà una mela (vale esattamente anche per le parole mercificate), ma se scambio un’idea, alla fine ognuno di noi avrà due idee.

 

Guido Marinotti

 


 



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