17 giugno 2015
FORZA MAGGIORE
di Ruben Östlund [Francia, Danimarca, Germania, 2014, 118′]
con Johannes Kuhnke, Lisa Loven Kongsli, Clara Wettergren, Vincent Wettergren, Kristofer Hivju
Famiglia svedese apparentemente da pubblicità (Ikea?) composta da una coppia di quarantenni (Ebba e Tomas) e due figli (Vera e Harry) si reca sulle Alpi francesi per una settimana bianca. Il luogo è lussuoso: un residence con vista mozzafiato.
C’è molta neve e un sistema di slavine controllate impedisce il formarsi di pericolose valanghe. Dopo una mattina sugli sci la famiglia è al ristorante su una terrazza panoramica ed ecco una spettacolare slavina indotta. Tutti a filmarla finché si accorgono che acquista velocità e sfugge al controllo dei tecnici e sembra travolgere la terrazza. Tra i turisti si diffonde il panico, è tutto un fuggi fuggi. Ebba istintivamente afferra i figli e si ripara sotto il tavolo mentre il marito, altrettanto istintivamente, raccatta l’Iphone e i guanti e se la svigna. La slavina si ferma alle soglie della terrazza, sui tavoli arriva solo una spruzzata di neve. Tutti fanno ritorno ai loro posti come se nulla fosse, ma qualcosa è successo per lo meno nella mente di Ebba e dei suoi due figli.
Quel che è deflagrato nella mente della donna il regista lo racconta minuziosamente, quasi da entomologo. Ebba non riesce a dimenticare ciò che ha fatto Tomas, anche se lo vorrebbe. Anche i bambini capiscono che qualcosa si è spezzato tra i genitori e temono il divorzio. Tomas si sente sotto processo.
L’uomo tenta di minimizzare l’accaduto anche di fronte a una coppia di amici, ma poi crolla e ammette la sua viltà. Il regista Oslund scava nel singolo e analizza la coppia un po’ come faceva Bergmann. Il suo film è duro e delicato allo stesso tempo, pieno di sospensioni e di reazioni rallentate come se si stemperassero nel biancore del paesaggio innevato. È il racconto, quasi attraverso una lente, di una crisi familiare non scaturita come accade spesso da tradimenti, passioni e sesso, ma dalla viltà di un genitore venuto meno al suo dovere di salvare i figli.
Per rendere questa narrazione il regista non ricorre a scene forti , usa la rarefazione, si serve di molti fuoricampo e di inquadrature con tagli particolari che raffreddano il pathos e creano l’attesa di qualcosa che potrebbe accadere. Nulla deflagra, tutto è trattenuto e la pragmatica Ebba decide di salvare il salvabile, di rimuovere il trauma. Per questo approfitterà del biancore lattiginoso dell’ultima giornata di sci per restituire alla famiglia un nuovo fondamento.
Segue un finale un po’ posticcio e corale che in alcune inquadrature ricorda il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo. Nelle ultime scene ritorna il tema della fragilità e della precarietà della vita, la fiducia nella donna, nella famiglia e nella collettività. Il richiamo alla collettività appare strano, poiché gli altri nell’intero film sono stati un mero sottofondo e i protagonisti sono un drappello esiguo: la famiglia, una coppia di amici, una donna conosciuta alla reception e il suo amante e un addetto alle pulizie del residence.
Da segnalare: la recitazione di altissimo livello e la fotografia davvero notevole. Il film è stato premiato lo scorso anno a Cannes nella sezione Un Certain Regard.
Dorothy Parker
questa rubrica è a cura degli Anonimi Milanesi