27 maggio 2015

SPAZI URBANI, LAVORI PUBBLICI E COMMERCIO: TRA COLPA E RESPONSABILITÀ


I milanesi ci tengono, ormai è assodato, alla pubblica piazza alla pubblica via agli spazi che quotidianamente abitiamo, percorriamo, condividiamo. O non avrebbero impugnato le spugnette spinti forse dalla rabbia dell’impotenza vissuta davanti a una devastazione che sembrava gratuita e impunita. Perché lo spazio pubblico non può essere ostaggio di chicchessia, in una democrazia.

09mattace20FBO forse è una rabbia che è scaturita tutta insieme, una eruzione magmatica, quella covata nell’animo di ciascuno quando percorre lo spazio pubblico e lo vede trascurato, degradato, mal costruito, demenzialmente occupato. Un sopruso. La rappresentazione plastica del potere nello spazio. Ma quale potere? Gestito da chi e in nome di chi?

È la stessa domanda che si pongono i comitati quando trattano con M4 per la vivibilità degli spazi nei loro quartieri (durante e dopo i lavori) – chi comanda le imprese o il Comune?-, o la sconsolata constatazione di Alberto Caruso che parla di disfatta dei lavori pubblici su queste colonne, di competenze incrociate e sovrapposte, di tipologia di appalto ma soprattutto di mancata direzione dei lavori. I reportage di Urbanfile gridano vendetta, sono il catalogo delle omissioni. Raccontano di un potere che non è all’altezza delle proprie ambizioni, schizofrenico nelle realizzazioni.

La relazione del potere con lo spazio pubblico è una lunga storia millenaria, quanto quella delle città. Di rappresentazione, di ordine costituito. Quell’ordine che si materializza passato il confine in Svizzera, o che si percepisce nella caotica Londra dove le regole sono rispettate, perché non si affermano solo i divieti ma li si esigono. L’esercizio del controllo a Milano è demandato al “doppio cordolo”, quello che viene costruito per impedire che le macchine posteggino sui marciapiedi, o in egual modo alle “parigine”: riempiamo di manufatti la città perché chi governa ci ha fatto sudditi renitenti e non cittadini responsabili, passibili di sanzione. Tutti sudditi e nessuno controlla.

Quanto questa modalità di progettazione dello spazio è consapevolmente agita dai politici? Pare piuttosto completamente subita dai tecnici. Se la visione è per una mobilità dolce, di zone 30, di spazi pubblici restituiti alla sovranità pedonale perché costruire piste ciclabili protette (e in alcuni casi un po’ si un po’ no, forse …) perché per esempio posare catenelle tra le parigine in corrispondenza dei binari di Piazza XXIV Maggio rovesciando l’idea di quella piazza (ripristinando di fatto l’assetto spaziale antecedente ai lavori)? Perché a Strasburgo e a Basilea nelle piazze pedonali i tram rallentano i pedoni camminano sereni, tutti reciprocamente accorti? Perché non si scommette fino in fondo sulla abilità consapevole e responsabile di condividere lo spazio dei milanesi?

Sulla capacità di controllo si gioca l’altra grande partita dello spazio pubblico, quello “occupato”, a cui viene applicato il Canone per l’Occupazione di Spazi ed Aree Pubbliche, la famigerata Cosap. Se cercavamo il potere egemonico dello spazio pubblico milanese, è presto detto: è quello economico. In nome del fare cassa, sembra tutto ammesso, tutto concesso. La monetizzazione dello spazio è quella che lo performa. Ma quanto realmente ci costa questo tipo di priorità, chi ci guadagna, sarebbe interessante capire per quanti denari stiamo svendendo la città.

La polverizzazione delle concessioni e degli interventi sembra dimostrare la perdita di controllo della faccenda. Corso Garibaldi (due isole digitali di sponsor diversi a distanza di 50 metri, allestimenti del salone del mobile ancora vigenti, chiusa una edicola ostruita da un ulteriore chiosco a sua volta abbandonato..), Piazza XXV Aprile (emblema del dehors, chi più ha più occupa …), Piazza Gae Aulenti (chiosco al centro della piazza – ma perché?! – con sedute: basse, alte, recintate, in libertà …): le nuove aree pedonali sono le più fragili, perché potenzialmente più appetibili e quindi paradossalmente le più aggredite e imbruttite. Non a caso il box del merchandising ufficiale del Comune di Milano è posato, sgarbatamente, in mezzo a Piazza San Babila, uno dei punti di maggior flusso pedonale in città.

La nuova delibera sulla Cosap apre ai dehors staccati dalle pareti, normalizzando di fatto la prassi vigente, e in nome di Expo ne autorizza la posa per 3 (!) anni: la capacità di gestione e controllo degli uffici è plasticamente avverata dall’ATM bar, ne abbiamo già discusso, possiamo dire che lascia molto a desiderare? Passati i 3 anni cosa succederà?

Ma davvero in assessorato credono che i Navigli sarebbero ancora nel rating del New York Times se i tavolini fossero inscatolati in tanti dehors lungo ripa? (E già che ci ragioniamo: siamo soddisfatti di via Paolo Sarpi e dei suoi casotti?) La città è attrattiva se è bella, oltre che viva. A vedere comparire i lampioni camuffati da Vodafone in Darsena a una settimana dalla sua riapertura, viene da pensare che la bellezza non ce la possiamo proprio permettere. Anzi quando faticosamente l’abbiamo costruita, investendo in street art per un murales di artista, concediamo un ulteriore dehors alla pizzeria di turno, che senza tema piazza la sua struttura, “cancellando” l’opera, senza neanche proteggerla (via Canonica, il dragone di Pao – ancora lui!). Dove la logica? Esiste una supervisione?

Forse gli assessori non hanno colpa ma hanno tutta la responsabilità. A quando la riforma della macchina comunale? Non ci rassegniamo perché siamo deterministi, perché il pragmatismo milanese dice che se si vuole si fa: allora chi non vuole? Perché non si fa?

 

Giulia Mattace Raso



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