19 maggio 2015

EXPO E FONDAZIONE PRADA, DUE IDEE ALTERNATIVE DI CITTÀ


Expo propone uno spazio che è certamente di una dimensione e una qualità adeguata al livello mondiale dell’evento. Il percorso centrale che innerva l’intero insediamento – il “decumano” – ha una scala proporzionata ai 150.000 visitatori. Le sue dimensioni, circa 1.600 metri per 50 metri, richiamano addirittura quelle degli Champs Elisées (circa 1.900 metri per 88 metri), la cui percezione è tuttavia impedita dalle alberature, mentre il decumano è un piano libero e vuoto. La copertura, pensata per alleviare la calura estiva, definisce verso il cielo lo spazio favorendone la percezione completa. Ai lati, i padiglioni formano un limite irregolare, ma la lunghissima prospettiva dei pilastri bianchi della tensostruttura determina un allineamento ordinato e infinito.

02caruso19FBIl concetto urbanistico deriva ancora dal masterplan originario, poi bocciato dal Bureau International des Exposition. Già l’Expo di Hannover (il cui masterplan era stato concepito dai ticinesi Arnaboldi e Cavadini a seguito di un concorso) prevedeva una trama, anch’essa delimitata sui bordi da vie d’acqua, costruita intorno a un grande asse longitudinale. Per Milano si tratta certamente di una novità, un grande spazio collettivo condiviso da molte decine di migliaia di persone di culture diverse, che si scambiano conoscenze scoprendo mondi lontani e prima ignorati.

Dal punto di vista spaziale, Expo è il decumano, e poco altro. Ma la straordinaria urbanità del decumano è soltanto virtuale, perché Expo è un enclave, chiusa tra quartieri industriali, ferrovie e autostrade. Il decumano è privo di sbocchi e connessioni con i percorsi della città, la cui trama qui è già rotta dalle infrastrutture in brani separati. La connessione tra la stazione della metropolitana e della ferrovia e l’ingresso principale è complessa e faticosa, mediata da un lungo ponte e da rampe ortogonali. È l’effetto della scelta errata del sito, che ha comportato l’isolamento dalla città del grande insediamento espositivo temporaneo, e quindi dell’isolamento delle attività – qualsiasi esse siano – che ne prenderanno definitivamente il posto. Il fatto che si tratti di un limite comune a quasi tutte le esposizioni universali e a quasi tutti i siti residenziali delle Olimpiadi – l’unica vera eccezione è Barcellona – non allevia il danno subìto dalla città, che avrebbe potuto utilizzare il grande evento, e i finanziamenti relativi, per ridisegnare, o rigenerare, una o più aree dismesse, per riattivarle a tutti gli effetti nell’impianto urbano.

È meglio astenersi dal commentare, invece, la qualità dello spazio del cardo, con il retorico fondale dell’orrendo albero della vita e con quel pasticcio modaiolo del padiglione nazionale. Gli altri padiglioni fanno a gara per relazionarsi, con atteggiamenti e linguaggi diversi, al grande decumano e per trattare, in modo polifonico e sovente con efficacia, il tema della scarsità e della distribuzione iniqua delle risorse alimentari.

Per il dopo Expo, sarà necessario insediarvi delle attività di alto valore, per utilizzare pienamente l’elevato investimento in infrastrutture. E sarà indispensabile promuovere un nuovo impegno progettuale perché non venga annullata la potenzialità spaziale del decumano, e soprattutto per studiare connessioni più dirette e compiute, anche spazialmente, con il trasporto pubblico.

La scelta del sito di Expo è stata, in ultima analisi, la massima espressione dell’idea di una città che continua ad espandersi nel territorio periurbano anziché disegnare nuovi progetti di densità nelle aree già costruite.

La nuova sede della Fondazione Prada, progettata da OMA, propone invece un’idea di città opposta e alternativa. Alle spalle dello scalo ferroviario abbandonato di Porta Romana, nella grande area industriale novecentesca, Rem Koolhaas ha lavorato sugli edifici di una ex distilleria costruita nel 1910. La complessità è la caratteristica dell’insediamento, formato da sette fabbricati ai quali sono stati aggiunti tre fabbricati nuovi.

“Il progetto della Fondazione Prada – scrive Koolhaas – non è un’opera di conservazione e nemmeno l’ideazione di una nuova architettura. Queste due dimensioni, in genere distinte, qui coesistono e si confrontano reciprocamente in un processo di continua interazione, quasi fossero frammenti destinati a non formare mai un’immagine unica e definita, in cui un elemento prevale sugli altri.”.

I fabbricati sono volumetricamente diversi, come spesso avviene negli insediamenti industriali che sono oggetto di successive aggiunte corrispondenti a segmenti specifici dell’attività produttiva, e diversi sono anche gli spazi aperti compresi tra di loro, sui quali il progetto ha investito moltissimo in termini di attrattività, giocando proprio sulla molteplicità delle condizioni.

La nuova torre svetta dal recinto stabilendo relazioni con gli altri edifici alti della città, ed è l’unico volume ancora in cantiere. I 19.000 mq della fondazione ospitano oggi otto mostre, curate da critici e studiosi come Germano Celant e Salvatore Settis.

Per la mostra più importante, curata da Settis, Koolhaas ha configurato il nuovo grande padiglione – che riassume magistralmente la lezione di Mies – inventando un paesaggio nel quale le sculture antiche sono raccolte in gruppi assecondando la sequenza narrativa di Settis.

Risolti con grande appropriatezza e chiarezza concettuale, i dettagli costruttivi dell’accostamento e della transizione tra i manufatti preesistenti e quelli nuovi evidenziano la ricerca avanzata sui materiali che caratterizza da sempre il lavoro di OMA. La complessità delle relazioni architettoniche tra vecchio e nuovo e tra pieno e vuoto ha un riscontro di corrispondente intensità nella complessità urbanistica dell’insediamento.

Il sito industriale di Porta Romana è in fase di trasformazione, soprattutto con sostituzioni complete degli immobili produttivi esistenti con nuovi e banali immobili per attività terziarie e residenziali, sostituzioni favorite dalla cultura immobiliare prevalente e assecondate da una normativa che non prevede differenze di diritti. Questa della Fondazione Prada è una lezione su come si può trasformare la città e produrre nuova qualità utilizzando il patrimonio esistente, senza preconcetti ideologici, sia nel senso della museificazione dell’esistente che nel senso del suo forzato rinnovamento. La “radicalità” che Rem Koolhaas ha sempre cercato nelle sue riflessioni sull’architettura, qui non viene moderata, ma viene declinata dal confronto con la sostanza costruita della città, colma di memorie e di segni delle fatiche dei suoi abitanti.

Le dimensioni non consentono, ovviamente, paragoni con Expo, ma in questo progetto l’idea di una città che si costruisce sul costruito è indicata con grande chiarezza. I visitatori lo comprendono, e rimangono allibiti dalla bellezza di spazi antichi recuperati con colta maestria contemporanea.

Oggi alcuni architetti stranieri – come Grafton Architects con l’ampliamento dell’università Bocconi, come Peter Eisenmann con la trasformazione dell’ex Carlo Erba, e come Rem Koolhaas con questo lavoro – dimostrano di essere capaci, più degli architetti italiani, di interpretare Milano e le potenzialità della sua possibile rigenerazione.

 

Alberto Caruso



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