20 maggio 2015

la posta dei lettori_20.05.2015


Scrive Roberto Limena a proposito di civismo e “pulire Milano” – Mi chiedo come fa il signor Paolo Hutter a non capire che tutti i milanesi sono stanchi di vedere la loro città deturpata da una minoranza di deficienti, incivili e delinquenti (perché si associano per danneggiare)?Molte persone (lo sento nei luoghi pubblici, anche senza volerlo) pensano di passare alle vie di fatto, organizzando ronde anti – vandali – deficienti. Ma dove vive il Signor Hutter, per stigmatizzare quelli che – molto civilmente – hanno sfilato contro i deficienti? C’è bisogno di “un’analisi differenziata” per spiegare la rabbia degli onesti indifesi? Sono esterrefatto da questi pseudo intellettuali.

 

Scrive Pietro Vismara a proposito di civismo e “pulire Milano” – Vorrei fare presente a Paolo Hutter che la manifestazione del 3 maggio “Nessuno tocchi Milano” non è senza precedenti: a Londra dopo gli scontri dell’agosto 2011 i cittadini si presentarono armati di scoponi per “ripulire la città”. Chi ha “inventato” la marcia del 3 maggio (curiosità: chi è stato?) aveva probabilmente presente quel caso. Sulle connotazioni politiche di quella manifestazione londinese invece non ho dubbi: era sicuramente perbenista e benpensante. dimenticavo: scontri londinesi di ben altro peso. Su questo Hutter ha ragione: è stato enfatizzato ad arte (“la città messa a ferro e fuoco”) un episodio sgradevole ma tutto sommato marginale.

 

Scrive Gregorio Praderioa proposito di tassazione immobiliare – Temo che Giuseppe Bonomi, nel suo intervento sulla tassazione immobiliare, e in particolare sugli oneri di urbanizzazione (“è cambiato tutto: non si urbanizzano più aree verdi, il focus è sulla trasformazione dell’esistente. Non ha più senso mantenere come riferimento determinati metri cubi a persona insediata che generano metri quadrati di parcheggi e verde, di asili e ambulatori”) descriva una situazione più teorica (o desiderata) che reale. Innanzitutto, non è vero infatti che non si urbanizzano più aree verdi. Si urbanizzano eccome, come dimostrano i dati sul consumo di suolo che continua imperterrito anche a fronte della riduzione delle produzione edilizia.

Ma soprattutto, anche gli interventi di trasformazione dell’esistente necessitano di urbanizzazioni. Forse se al posto di una fabbrica o di uno scalo ferroviario ci saranno residenze, non ci sarà bisogno per loro di nuovi “parcheggi e verde, di asili e di ambulatori”? È purtroppo diffusa l’illusione (contraddetta però dalla realtà) che i servizi esistenti siano sufficienti ad assorbire la nuova domanda; cosa che è vera solo per alcune localizzazioni e per alcuni tipi di servizio, ma falso, del tutto falso, per altre. E quindi ritengo giusto che per un po’ si continui a distinguere fra oneri di urbanizzazione (finalizzati e realizzare opere, giusto quindi stigmatizzare le norme che consentono di ridestinarli ad altri usi) e tassazione sull’attività di costruzione. Sono logiche diverse, che è utile continuare a tenere distinte.

 

Replica Giuseppe BonomiHa ragione Praderio nel dire che mi riferisco a una realtà certamente desiderata, probabilmente teorica, ma non per questo da non desiderare. Ha ragione anche sul fatto che il consumo di suolo tuttora procede, ma è anche vero che i fenomeni vanno valutati nella loro dinamica, e i segnali che esistono (norme in itinere, sensibilizzazione, consapevolezza diffusa, …) porteranno all’arresto di tale incosciente consumo: e tutto il mio discorso si lega a tali dinamiche, non per l’oggi ma sul (dopo)domani.

E certamente sono d’accordo che serviranno “parcheggi e verde, di asili e di ambulatori” anche sostituendo capannoni con condomini, ma il concetto di “trasformazione” che mi piacerebbe sostituire a quello di “urbanizzazione” dice proprio questo: la trasformazione include l’urbanizzazione, e non viceversa; Temo che in ciò affiori la resistenza dell'”urbanista” a rinunciare ai consueti strumenti e a pensare a strumenti nuovi.

Rimango convinto che il margine di contribuzione che un progetto debba sostenere a favore della collettività debba essere misurato proprio su nuovi e più focalizzati criteri di definizione, e il concetto di “onere di trasformazione” non deve essere una diversa etichetta ma una nuova metodologia di valutazione dell’impatto progettuale complessivo, e nel calcolo del suo margine contributivo. È proprio nella costruzione di questa nuova metodologia (che secondo me serve già oggi) che sarebbe bello avere un confronto.

 

 



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