13 maggio 2015

DARSENA: SE DA UN MATTONCINO ROSSO PUÒ RINASCERE UNA CITTÀ


L’acqua ci affascina, non c’è che dire. Fin da quando siamo piccoli, una pozza, una piscina, un rigagnolo ci attirano e ci incantano. Le città d’acqua hanno una magia che nessun’altra metropoli riesce ad avere. Milano, il lago, il fiume, e tantomeno il mare non li ha aveva. Se li è costruiti, ma, nella più pragmatica tradizione meneghina, persa la loro funzione, li ha abbandonati al loro destino.

08bonessa18FBOnore a questa amministrazione di averci ridato il nostro lago, i nostri fiumi, la nostra spiaggia. Questo è un merito che nessuno può negare a chi, dopo il tragico governo di donna Letizia, ha trovato una città bloccata in contenziosi, fallimenti, litigiosità di ogni tipo. Un merito a cui i Milanesi hanno risposto con un entusiasmo sorprendente, accogliendo in massa la riapertura della Darsena. Un progetto che, nato da un Concorso Internazionale del 2005 sotto la direzione Albertini, si era impantanato sulla polemica del previsto parcheggio interrato, e che questa Amministrazione ha ripreso, liberato, realizzato.

Ma i progetti, come tutti noi , sentono i segni dell’età. E ancora di più un progetto figlio di una tendenza architettonica che, perso il suo nume ispiratore (l’unico in grado di dominarne la povertà espressiva con alcuni gesti originali e poetici), stava ormai finalmente scomparendo. Non prima di aver infettato, grazie a emuli e imbarazzanti imitatori, la provincia italiana di centri comunali e civici simili a centri commerciali (e viceversa).

Un progetto di cui si era nel frattempo perso il Capo Progetto, il francese Bodin e probabilmente anche l’ottimo design Paolo Rizzato che doveva curarne l’arredo urbano e la progettazione illuminotecnica. Un orfano che l’Amministrazione ha dovuto comunque adottare per non dover ripartire con un processo epocale che avrebbe dilatato ,oltre qualsiasi immaginazione, i tempi. Una realizzazione che, affidata alla gestione dei tecnici del Comune (gli stessi del Mudec?), seppur sotto la supervisione dei progettisti Guazzoni e Rossi, dimostra, in tutta la sua evidenza, i segni ma soprattutto le stigmate di ogni Assessorato coinvolto. Ognuno interessato a risolvere il proprio problema specifico senza una visione d’insieme necessaria a rendere l’opera equilibrata.

Una sommatoria disordinata di funzionalità, percorsi, blocchi, volumi, edifici, (il mercato assolutamente sovradimensionato è difficilmente accettabile), che, per fare un esempio si palesa in tutta la sua schizofrenia nella palificazione selvaggia. Si intuisce come, senza nessun collegamento, senza una regia e un controllo, come chicchessia sia passato a puntualizzare il territorio dei suoi simboli o segnali. Stessa sorte la viabilità in cui ognuno ha avuto soddisfazione, pedoni, bici, auto, camioncini in uno shaker senza una minima gerarchia o decisione, o la distribuzione delle attività commerciali che risponde a specifiche esigenze di cassa.

E allora buttiamo tutto? Passiamo il nostro tempo a criticare, operazione facilissima e di grande soddisfazione, ogni particolare, ogni angolo, ogni errore? O invece proviamo a dimenticarci del luogo come spazio singolo, intercluso, “vasca” in cui i milanesi passeggiano in senso circolare quasi che fossero finalmente abitanti di una tranquilla città di provincia? Non è farina del mio sacco, ma una suggestione che mi ha regalato Giuseppe Longhi in una chiacchierata di qualche giorno fa.

Una suggestione che ci può veramente far fare un salto di qualità nel modo di affrontare la complessità metropolitana, dove spazi, persone, vite, sensazioni, luoghi privati e pubblici convivono. La Darsena (ma così tutti i luoghi rigenerati di Milano) dovrebbero diventare i centri da cui far partire un processo di progettazione continua, collettiva e possibilmente condivisa dai più, che non si fermi con le inaugurazioni ufficiali.

Il taglio del nastro deve essere il punto di partenza di un’espansione del progetto, di qualsiasi progetto, che raggiunga le aree limitrofe, che colleghi e ampli a macchia d’olio gli effetti di trasformazione. Un processo che ripari agli errori, imparando da questi, e che modifichi gli spazi ma anche le modalità di vita in un processo dinamicamente in evoluzione

Guardare avanti significa questo. Significa superare l’errore con la sua soluzione, far seguire alla diagnosi una terapia. Ed espandere questa terapia in ogni direzione. E quindi accettare la Darsena, appropriarsene per prendersene cura, vedere al di là del ponte verso la stazione di Porta Genova o pensarla in espansione verso la Conca del Naviglio. O arrivare, attraverso Piazza General Cantore fino al parco Solari e così via.

E interessarsi di cosa ci vive intorno, a fianco, di lato, sovrapponendosi spesso in una condizione di conflittualità. Imparare a vivere la città come un qualcosa di animato, in continua evoluzione, che non si ferma mai, senza soffermarci su un orrendo bastione in mattoncini rossi. Certamente esteticamente fastidioso ma di più facile digeribilità se incidente di un percorso e non confine di uno spazio definito.

 

Andrea Bonessa



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