13 maggio 2015

LA CITTÀ CHE CAMBIA E LE OPINIONI ATTENDISTE


Non c’è dubbio che Expo sia una grande vetrina (anche se avevamo sperato nel grande fondaco, più intricato o correlato, quale luogo di uno scambio nuovo con il mondo) e che questa sia, per ora, la sua principale attrattiva. In questo senso anche la sua configurazione spaziale è coerente, e l’evocazione di cardo e decumano, in questo luogo sostanzialmente antiurbano, o per meglio dire antistorico, è più che logica. Diciamo che la grande vetrina non è propriamente in Regent Street, e il mancato fondaco non utilizza i rapporti e le distanze, e le vecchie cascine della Bassa, che pure storia lo sono: eccome.

09bono18fbCiò è un fatto: ma attorno a questo fatto, per mimesi o per assecondamento (e a volte per conformismo), è avvenuto un fatto meno spiegabile, meno giustificabile. Sembra infatti che tutta la città sia diventata una vetrina, anche nel giudizio o nella considerazione dei commentatori i più avvertiti. Quale città poi? Non è mai detto, ma si tratta essenzialmente della la città storica, la cosiddetta città compatta, quella che conta poco più di un milione di abitanti: a fronte della ben più vasta città reale: cui peraltro lo stesso luogo espositivo appartiene.

Dentro quei ristretti confini, la Milano nuova, la “Milano che sale”, la Milano di vetro, o in quale altro modo sia chiamata, è accettata nella sua sostanziale inutilità, ed è vista appunto come una vetrina da descrivere in quanto fenomeno, e non da comprendere come storia: che sarebbe soprattutto la storia del declino del ruolo di Milano come centro di un vasto mondo produttivo. Il fenomeno della sostituzione (tutto quanto ha rimpiazzato l’opificio o la vecchia infrastruttura) è descritto e a volte esaltato, senza un giudizio circa l’effettivo – il più delle volte mancato – rinnovamento.

Basti pensare che il complesso di Cesar Pelli non è che la sede di una assicurazione (o di una banca?), mentre doveva forse essere la Città della moda, e che tutta Porta Nuova è stata venduta a un improbabile straniero; e così via. Anche Fulvio Irace sulle colonne del Sole 24 Ore di domenica 3 maggio, lui in genere così sottile negli articoli sul domenicale, cede, per la prima volta sul quotidiano, a quest’andazzo della descrizione acritica, a questa sorta di sospensione del giudizio, quasi a dire: vediamo come va a finire prima di posizionarci.

Nel pezzo titolato “Vette di una nuova città che sale“, ad esempio, ci dice: “… il contestato gate di Expo incornicia la prospettiva sul Castello con un segno nuovo che potrà spiacere ai nostalgici a ogni costo, ma indubbiamente, insieme ai ‘fiocchi di neve’ da poco installati nell’area pedonale di Foro Bonaparte, consente di vedere con occhi nuovi il lascito dell’eredità storica, creando un temporaneo contrasto con l’austera mole di mattoni.” È per l’appunto una descrizione che non prende posizione; ma, al di là degli occhi e le seste, il nuovo vero, là, non è forse ancora tutto quanto è avvenuto e costruito al Castello dopo Napoleone, con la sia pur timida e bassotta torre del Beltrami, cosiddetta del Filarete? Non è ancora, oltre quei nuovi e ridondanti tubi, ancora la città moderna?

Mi convince di più la satira di Crozza nel Paese delle Meraviglie quando dice che pensava fossero ancora le impalcature: ed invece era già un finito. Ma Irace stesso, non ci aveva altre volte ricordato come, con una centesima parte di quei tubi, Edoardo Persico prima e i BBPR poi, con il monumento a Banfi al Monumentale, hanno fatto delle cose bellissime?

Poi dice: “il MUDEC, sistemato dal britannico David Chipperfield nel cuore dello storico complesso industriale dell’Ansaldo. Una nuvola luminosa fa da cuore e corte interna delle gallerie espositive, configurandosi con la forza di un motore gentile dentro la carcassa derelitta delle acciaierie da cui una volta uscivano locomotive e ora entrano opere d’arte e reperti della storia”. Ecco: qui, più che l’esaltazione del nuovo avrei preferito, derelitte o no, un serrato confronto storico tra opere d’arte d’epoca diversa: le locomotive prima, e le immagini ora. Ciò che voglio dire è che la descrizione, e l’esclamazione, riducono la storia, la impoveriscono, la semplificano in modo non accettabile.

Come del resto fa un altro illustre commentatore, Philippe Daverio, dalle colonne di Style, supplemento del Corriere della Sera (maggio 2015). Capisco che si tratti di un pezzo divulgativo, ma il Daverio non ci aveva forse abituato a più sottili differenze e sfumature? Anche in questa sede, e giustamente, ricorda le torri di Piazza Piemonte, del geniale Borgato che nessuno mai cita: ma poi, sommando le semplificazioni, ne esce solo un’agiografia non conseguente. Riprendendo un concetto già espresso in altra sede, conferma, sia pure implicitamente, che il Fascismo ha prodotto bellissime architetture: il che è verissimo, ma a patto di aggiungere che il Fascismo, specie agli inizi, era, come disse Pirandello, un “tubo vuoto”, che raccoglieva tutto quando s’era incubato nel tempo precedente (basti pensare allo straordinario lascito del Sindaco Nathan a Roma, come documentato nel bel libro della Fraticelli); e che le grandi quantità della fabbricazione hanno portato ai risultati di qualità che vediamo. Del resto non c’era ancora omologazione, c’erano ancora le “cento città”, e quindi anche Podestà illuminati, come il Melzi d’Eril a Torino.

Di seguito ci ricorda che c’è stata a Milano l’epoca della qualità, con la Velasca e il Pirelli, senza dirci che quelli (e altri) erano fiori rari, nel massimo momento della quantità a tutti i costi, quando in dieci anni furono costruiti a Milano cinquecentomila vani in deroga al Piano regolatore, che nelle sue visioni migliori fu interrotto o disatteso. Quindi fa seguire il momento dell’edilizia senza qualità, quando invece fu quello il momento (gli anni ’80 del secolo scorso) di certa progettualità, soffocata e tradita dalle relazioni di potere perverse che portarono a Tangentopoli. Infine rileva che Milano è di nuovo terra di Architetti, solo perché nella babele che ne è seguita, e nella completa resa sia della classe dirigente, sia delle professionalità o creatività milanesi (a parte episodi come la Bicocca), qualcosa che si fa notare è pure emerso. (anche se, per dire, il Palazzo della Regione, che guarda caso nessuno cita, grazie al concorso svoltosi, avrebbe potuto essere quello decisivo di Norman Foster, e non quello solo esornativo che abbiamo …).

Sarà una parentesi, sarà il momento, e mi aspetto dai nostri una prossima lettura più approfondita, che al di là della descrizione superficiale e della serena agiografia, colga invece il vero “dramma” di una città, attraversando il quale, e la sua complessa narrativa con tanto di critica e autocritica, possa infine darci le ragioni di un vero riscatto.

 

Cristoforo Bono

 

PS.: Milano non può ricominciare sempre da zero: concordo con Bisio che Pisapia debba (o possa) ripensarci.



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