19 ottobre 2009

DONNE DEI MEDIA, DELLA POLITICA E DELLA REALTÀ


La società e, soprattutto, la politica italiana sono in ritardo per quanto riguarda le donne. Bastano pochi dati per capire l’entità del fenomeno. Alla Camera le donne sono il 21 %, al Senato il 18 % degli eletti. L’Italia è il quartultimo paese (dopo di noi: Repubblica Ceca, Lussemburgo, Malta) nel Parlamento Europeo per numero di donne tra i rappresentanti: 21%. I dati relativi ad altri campi (economico, industriale, accademico) sono omogenei al dato politico: in Italia le posizioni di leadership sono ancora saldamente in mano maschile.

I massa media giocano un grande ruolo nel mantenimento di questa cultura della diseguaglianza: riflettono, costruiscono, perpetuano un’immagine subalterna della donna. Questo è vero nella quasi totalità dei paesi, come dimostrano decenni di ricerche nel settore della comunicazione. C’è però una specificità italiana: in controtendenza rispetto ad altri paesi, in Italia il modello sessista è in crescita.

Una delle poche indagini comparative che ha analizzato l’immagine della donna in dieci paesi europei (Austria, Francia, Grecia, Inghilterra, Italia, Montenegro, Paesi Bassi, Serbia, Slovenia, Svezia; per l’Italia i dati sono stati raccolti dal CENSIS, 2006), “Women and media in Europee”, ha posto l’Italia nelle ultime posizioni, insieme con la Grecia, per quanto riguarda la presenza di una cultura sessista nei programmi televisivi. Il rapporto definisce l’Italia un paese “in resistenza”, in cui la rappresentazione stereotipata della donna è considerata un tratto antropologico così radicato che non si pensa valga la pena di contrastarlo con politiche evolutive.

L’indagine ha monitorato i programmi trasmessi nella settimana dal 6 al 12 marzo 2005 negli ambiti dell’informazione, dell’approfondimento, della cultura e dell’intrattenimento. I risultati hanno indicato che, in Italia, la maggior presenza femminile si ha nella fascia preserale con la messa in scena di donne dello spettacolo che perpetuano un’immagine femminile come decorazione, ornamento, oggetto di desiderio.

Per quanto riguarda l’informazione, la donna compare soprattutto come vittima (67.8% dei casi), “donna del dolore”, secondo la definizione del rapporto. Risultano in ombra le donne “normali”, praticamente invisibili le donne della politica (6.4% per la politica interna, 1.5 % per quella estera, 0.4% per economia e finanza). Anche nei programmi di approfondimento, la presenza femminile è minima tra gli esperti (medici, giuristi, mondo imprenditoriale e finanziario); le donne hanno voce, comunque poca (sono il 26% degli intervistati), quando le tematiche affrontate sono di tipo sociale; sono invece maestre quando si parla di “natura, artigianato, poesia, astrologia”.

Emerge da tutti i dati una profonda discrepanza tra Italia ed Europa, una discrepanza presente anche nei codici di autoregolamentazione miranti a contrastare la riproposizione degli stereotipi di genere. Uno sguardo comparativo ai siti della BBC e della RAI costituisce un’utile illustrazione di tale discorso: nel sito della televisione inglese è facile trovare indicazioni su come trattare temi sensibili, come il genere. Nulla di simile compare, invece, nel sito della televisione italiana.

Nelle discipline psico-sociali, una delle ottiche attraverso le quali si studiano le disuguaglianze di genere è l’analisi degli atteggiamenti di sessismo. Gli studiosi distinguono tra sessismo ostile e sessismo benevolo.

Il sessismo ostile si basa sull’affermazione della ‘naturale’ inferiorità della donna e sull’aperta ostilità verso richieste e pratiche di parità. L’etichetta del ‘celodurismo’ leghista condensa in un solo termine tale fenomeno. Ma gli esempi nel panorama politico e mediatico italiano abbondano. Ricordiamo quando Ghedini definì il suo datore di lavoro un “utilizzatore finale” che avrebbe potuto avere “grandi quantitativi gratis”, di donne s’intende. Del resto il suo padrone predilige la metafora della caccia, alle donne, che gli consente di dissertare sul “piacere della conquista”.

Per il sessismo benevolo, le donne sono invece oggetti fragili, preziosi, che vanno protetti, salvaguardati, difesi, anche da se stesse… Il sessismo benevolo si basa sul cosiddetto wonderful effect, secondo il quale le donne hanno caratteristiche più positive di quelle degli uomini; peccato però che questi ultimi siano associati più fortemente con le dimensioni del potere e dello status.

Nei rapporti di genere, il predominio maschile si perpetua attraverso stereotipi di superiorità relativi alla competenza e allo status; la superiorità femminile emerge nella capacità di costruire e mantenere soddisfacenti relazioni interpersonali. Alle donne vengono attribuite qualità legate al calore, agli uomini qualità legate alla competenza.

Come sopra accennato, il sessismo, ostile e benevolo, è in calo nei paesi occidentali, non in Italia. Da noi, classe politica e media continuano a impiegarlo senza timore, come impiegano con crescente protervia termini offensivi nei confronti di omosessuali e immigrati. Negli ultimi quindici anni si è assistito allo sdoganamento di un linguaggio ostile e volgare, rapidamente dilagato nella quasi totalità dei ceti sociali. Già nel 1995, Barbara Spinelli, in un articolo sulla Stampa dal titolo “La parola diventa coltello”, parlava di “una nuova sfacciataggine”. Da allora la situazione è decisamente peggiorata: si assiste a una continua lotta contro un “politicamente corretto”, mai in realtà affermatosi nella nostra società. Come notato da Flavio Baroncelli (Viaggio al termine degli Stati Uniti, 2006), questa lotta viene condotta in nome di un soggetto maschile, ferino, arcaico, che si autoproclama spontaneo, libero, capace di interpretare il mondo tramite il buonsenso dei padri e dei nonni. In realtà questo soggetto trasmette una visione riduttiva e desolante del maschile e della sua sessualità. Un maschile misero, ridicolo, cha ha bisogno di urlare forte per coprire la sua impotenza.

Quali conseguenze ha la rappresentazione povera e deprezzata della donna quotidianamente trasmessa dai media? Incide sul vissuto di ciascuno di noi?

Sì, incide, soprattutto sul vissuto delle giovani generazioni. Ce lo dicono i risultati delle ricerche che hanno analizzato i processi di oggettivazione.

I media giocano un ruolo fondamentale nel far vedere il corpo femminile come un mero oggetto sessuale, da guardare e giudicare, esistente per l’uso e il piacere altrui. Quando è oggettivato, il corpo femminile è minimizzato ad alcune sue parti, che privano la donna d’individualità e personalità. “L’oggettivazione sessuale si verifica quando delle parti sessuali o delle funzioni di una donna sono separate dalla sua persona, ridotte allo stato di mero strumento, guardate come se fossero capaci di rappresentarla” (Bartky, 1990, p. 35). Ciò che è più preoccupante è il dilagare dei processi di auto-oggettivazione: l’interiorizzazione della prospettiva dell’osservatore esterno sul sé. L’auto-oggettivazione si manifesta con una persistente sorveglianza del corpo, che promuove vergogna e ansietà e riduce la consapevolezza dei propri stati interni. Ha delle conseguenze molto serie sul benessere psico-fisico; è infatti legata a un aumento dei disturbi depressivi, delle disfunzioni sessuali, dei disordini alimentari.

Le abitudini linguistiche sono importanti nel determinare la percezione degli attori della scena sociale. Le donne sono presentate con un linguaggio diverso rispetto a quello usato per gli uomini, un linguaggio che rinforza gli stereotipi di genere. Osserviamo, per esempio, nei talk show che costellano i programmi televisivi, di cosa si parla e di cosa non si parla quando sono sulla scena le donne. Si privilegiano i temi personali, privati; si trascurano i temi generali, pubblici. Di nuovo, parlando con donne emergono temi legati al calore, vengono sottovalutati temi relativi alla competenza.

Un altro indice della differenza con cui i generi sono trattati riguarda tempi, spazi, interruzioni. Provate a misurare, la prossima volta che guardate un talk show, quanto tempo viene dato a una donna (probabilmente l’unica presente) e confrontatelo al tempo dato a uno qualsiasi degli uomini; misurate poi quante volte la prima viene interrotta rispetto ai secondi.

Ma ci sono anche indici più pesanti, relativi alle strategie di delegittimazione.

Quali sono le strategie usate per delegittimare il discorso femminile? Sono le stesse impiegate per gli uomini? Facciamo anche qui qualche esempio. Chi, tra gli attori maschili della scena pubblica italiana, ha subito una delegittimazione paragonabile a quella vissuta da Veronica Lario, con la pubblicazione della sua foto a seno nudo, da parte di Libero? E i graziosi appellativi (“più bella che intelligente”) rivolti da Berlusconi a Rosy Bindi trovano riscontro in altre situazioni, con protagonisti maschili? In quell’occasione Rosy Bindi era l’unica donna, ma anche l’unica persona che osasse criticare apertamente le incredibili esternazioni del premier, che stava rimproverando al presidente della repubblica di non averlo “raccomandato” ai giudici della Corte Costituzionale. Nel farlo Rosy Bindi mostrava coraggio e competenza come democratica e come deputata. E proprio la sua competenza, così inusuale in una donna, deve aver disturbato il nostro gentiluomo facendolo passare dal consueto sessismo benevolo alla forma ostile.

Il linguaggio evoca, crea mondi, costruisce possibilità, apre spazi mentali. Il modo in cui i generi sono rappresentati nel linguaggio influenza la loro visibilità e le loro possibilità di pensiero e azione. Gli stereotipi possono essere rafforzati o ridotti dall’uso di un linguaggio sessista o gender-fair. La consapevolezza che una leadership femminile, oltre che possibile, è necessaria può essere aumentata da un uso appropriato del linguaggio. Bisogna imparare forme nuove o rinnovare le forme antiche. Questo è il compito che ci aspetta nel prossimo futuro.

Chiara Volpato



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