6 maggio 2015

ISTANTANEE DA UNA CITTÀ IN FESTA E RIFLESSIONI SUL RUOLO DEI GRANDI EVENTI


Tutti in fila davanti all’Expo Gate. Magari sfogliando un inserto dedicato ai padiglioni di Rho o consultando una cartina di Milano. Felici. In coda, per ammirare la Pietà Rondanini, ultima opera (incompiuta) di Michelangelo, nella sua nuova sistemazione al Castello Sforzesco, in attesa di assistere al concerto inaugurale di Expo in città. Ancor più felici. Poi, nel favoloso chiostro del Palazzo delle Stelline in corso Magenta a festeggiare insieme all’Institut Français l’arrivo di Expo, con i piatti e i vini d’oltralpe. Quindi, lungo la nuova, magnifica, Darsena sdraiandosi a pelo d’acqua o divertendosi a vedere gli sguardi entusiasti dei passanti, davanti a un lago apparso, quasi all’improvviso, nel cuore della città. Trovarsi, insieme, in piazzale Cadorna, per rivendicare con forza l’identità di Milano.

05liva17FBIstantanee confuse, parziali, ma significative di un inizio Expo sorprendente. Si può dire tutto, meno che, durante il week end del primo maggio, mancasse entusiasmo, energia, curiosità. Perché Milano è schiva, sobria, talvolta diffidente ma mai pigra, mai impassibile di fronte alle novità. Siamo stati artefici, per dirla con le parole del direttore di questo settimanale Luca Beltrami Gadola di «un’accelerazione nel mutamento», e ora resta da capitalizzare tale scatto.

I conti, come sempre, si faranno alla fine ma già da ora è possibile leggere con uno sguardo più consapevole i numerosi studi scientifici che analizzano i rapporti che si creano tra città o aree metropolitane e grandi eventi. Già, perché i grandi eventi, tra cui le Esposizioni Universali (ma non solo), costituiscono innegabilmente «un momento di ripensamento per la città nel suo complesso e di profonda trasformazione», come evidenzia Giulia de Spuches nel suo La fantasmagoria del Moderno. Esposizioni universali e metropoli (2002). I grandi eventi sono diventati, al netto di alcune pur legittime perplessità, le chiavi di volta per giustificare importanti progetti di rinnovamento e rigenerazione delle aree urbane, pubblicizzare il loro status e la loro personalità, attrarre nuovi investimenti interni e modernizzare le loro economie.

È probabilmente ancora attuale la ricostruzione descritta del geografo francese Claude Raffestin nel suo Territorializzazione, deterritorializzazione, riterritorializzazione e informazione (1984) in cui venne teorizzato e studiato l’impatto del grande evento sulla città alla stregua di un processo di territorializzazione – deterritorializzazione – riterritorializzazione. Un processo che, sostanzialmente, appare in grado di assegnare un nuovo valore alla città in cui si insidia il grande evento, il quale è descritto come un «agente esogeno» capace di sollecitare un territorio in modo straordinario. Non sempre in positivo, ammonisce Raffestin: il successo arriva quando le finalità urbanistiche e logistiche che persegue il grande evento appaiono in grado di sovrapporsi in maniera dolce rispetto alla complessità territoriale locale esistente, in modo tale che le due distinte visioni del territorio (quella sovra-locale e temporanea dell’evento e quella locale e duratura della comunità cittadina) possano marciare insieme.

Certo è che, sempre di più, i grandi eventi appaiono decisivi per guadagnare terreno nella quotidiana «guerra per i talenti» per dirla con il titolo di un libro Ed Michaels. Dagli Usa, peraltro, ci ricordano come la competizione globale per attrarre nuovi cittadini, capitali, flussi di turisti, investimenti esteri, lavoratori specializzati, oltre a quella che viene definita la «classe creativa» (R.L. Florida, The Flight of the Creative Class. The new Global Competition for Talent, 2005), è accesa, serrata e ormai si svolge tra città metropolitana più che tra stati nazionali (B. Barber, If Mayors Ruled the World: Dysfunctional Nations, Rising Cities, 2013). In questo contesto, i grandi eventi appaiono decisivi, appunto, per innalzare la notorietà di un territorio, per dotarlo di quelle strutture, infrastrutture e amenità che lo rendano desiderabile agli occhi dei potenziali cittadini, turisti o investitori, e anche ad accelerare il processo di trasformazione urbana in base ai propri progetti di riqualificazione.

Sorge allora una legittima domanda: tutto ciò non può avvenire in contesti di normalità, al di fuori della logica dell’evento? Forse sì, verrebbe da rispondere razionalmente. Ma, allo stesso tempo, forse no, se si pensa che viviamo un’epoca di risorse scarse e di conseguente necessaria concentrazione delle energie e degli investimenti. E soprattutto, se si pensa alle pluralità di ricadute sul territorio urbano che solo il grande evento è in grado di garantire. Il Professor J.R.B. Ritchie, in un articolo apparso sul Journal of Travel Research del 1984 (Assessing the Impact of Hallmark Events: Conceptual and Research Issues) classificò sei categorie di effetti derivanti dai grandi eventi (economici, socioculturali, fisici e ambientali, turistici e commerciali, psicologici, politici e amministrativi), distinguendoli secondo la qualità (positivi o negativi) e la durata (breve periodo, medio periodo e lungo periodo). Ne nacque un’ideale tabella quanto mai interessante ove, ad esempio, si scopre che tra gli effetti psicologici positivi di medio periodo ci può esser la crescita di uno spirito di comunità, mentre tra quelli socioculturali negativi sempre di medio periodo si annovera una potenziale crescita della criminalità.

In ogni caso, oggi, a Milano, il vento di Expo fortunatamente è arrivato. Appare un vento quanto mai benefico. Attenzione però: scriveva Seneca, che nessun vento è di per sé favorevole per il marinaio che non sa dove andare.

 

Martino Liva



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