19 ottobre 2009

PIL E DONNA LOMBARDA


Donne e PIL a Milano. Bisogna parlare di donne e insieme di PIL, il Prodotto Interno Lordo. Donne intese come donne lavoratrici o potenzialmente tali o invisibilmente tali, quelle che per il nostro presidente del consiglio sono trasparenti, anzi devono essere trasparenti e invisibili per lasciare il proscenio a quelle che lui preferisce.

Si è detto che un incremento dell’occupazione femminile dell’1% in Italia avrebbe fatto crescere il PIL dello 0,28% e L’Italia potrebbe agevolmente aumentare l’occupazione femminile del 5%, senza certo raggiungere le percentuali del Nord Europa, facendo salire il PIL di un punto e mezzo mentre oggi ci si batte per mezzo punto in più o in meno. La verità è anche un’altra: non tutte le donne che lavorano concorrono a formare il PIL. Il PIL, questa specie di molok che regola i nostri sacrifici fiscali e che usiamo per confrontarci con gli altri Paesi non è più un indice realistico e attendibile.

Spesso confuso per un indice di benessere o di ricchezza, non è altro che la somma dei beni e dei servizi prodotti in un anno, come dire consumi + investimenti + spese dello Stato + esportazioni – importazioni. Tutti questi conti sono fatti sommando cifre che in qualche modo risultino da contabilità: tutto quello che non ha un prezzo ufficiale non ha valore. Va da sé che il cosiddetto “nero” (attorno al 16% del PIL) non c’è. Dire poi che così si rappresenti la ricchezza è un’altra follia: per il PIL se io compro un’automobile e la pago 25.000 euro e il giorno dopo ho un grave incidente e ne spendo 10.000 per ripararla il PIL aumenta di 35.000 euro ma il sistema paese ha un’automobile che vale certo meno del suo prezzo d’acquisto.

Molti economisti oramai sono orientati a usare un indice più articolato il GPI (Genuine Progress Indicator) che oltre ad includere tra gli addendi anche il lavoro domestico delle donne, il volontariato (e per il nostro Paese forse bisognerebbe includere anche il differenziale tra lavoro sottopagato e il valore reale della prestazione), sottrae tutti i costi negativi: il disinquinamento, le spese di giustizia, i costi del pendolarismo e, per finire, le spese militari.

Tornando al PIL per Milano, la grande Milano che per ragioni statistiche faccio coincidere con la provincia, una diversa valutazione della produzione darebbe risalto alle capacità produttive di questo territorio che già si trova in vetta alla classifica italiana con un PIL di 287 mila milioni d’euro complessivi e il PIL pro capite di 30 mila e più euro.

Tra gli addendi mancanti rispetto al GPI ne cito solo tre: il lavoro domestico femminile, il volontariato e il lavoro intellettuale sottopagato delle università.

Ho fatto conti molto sommari ma danno un’idea. Il lavoro domestico femminile, che dovremmo sommare al costo per servizi dello Stato, è un vero macigno. In provincia di Milano ci sono 1.974.000 donne, 1.175.000 sono in età lavorativa e 973.000 hanno famiglia. Le donne occupate sono 759.000. Ammettendo che ogni donna sposata dedichi due ore il giorno alla cura della famiglia, alla fine dell’anno avremmo 711 milioni e passa di ore lavorate: come dire equivalenti a 355.000 donne occupate a tempo pieno. In provincia di Milano avremmo un’occupazione femminile a 1.114.000. Pur valutando un costo orario risibile (15 € l’ora) avremmo un incremento del PIL milanese di 10.600 milioni. + 4% circa.

 

Veniamo al volontariato. Sempre in provincia di Milano ci sono 90.000 volontari che suppliscono a carenze totali o deficienze del sistema della pubblica assistenza. Si è calcolato che fanno almeno il lavoro di 11.000 operatori sociali a tempo pieno e certo con grande dedizione. Se dovessero essere pagati, avremmo un esborso di almeno 330 milioni di euro.

 

Veniamo in fine a un lavoro essenzialmente intellettuale rappresentato dal sistema universitario milanese. Ci sono 11.000 persone che si dedicano all’insegnamento. Di questi 2000 circa sono ricercatori (il 18%) e 5.600 (il 50%) sono docenti a contratto. I primi fanno un lavoro che, per avvicinarci agli altri paesi, dovrebbe essere pagato il doppio; i secondi, salvo rare eccezioni, dovrebbero esser semplicemente pagati perché quel che prendono ora va paragonato a un rimborso spese. A essere di manica stretta lo Stato dovrebbe mettere sul piatto per le università milanesi almeno un centinaio di milioni di euro e il prodotto salirebbe ancora.

Ma torniamo alle donne. Da più parti, e giustamente, si confronta il nostro tasso d’occupazione femminile (46%) con quello di altri paesi di 10 o 15 punti superiore e lo si vorrebbe portare al 60% (per qualcuno l’unica strada a breve per aumentare il PIL) ma in cambio di cosa: cosa possiamo offrire alle donne perché lavorino più numerose, visto che non posiamo ovviamente chiedere a quelle occupate di lavorare di più? Servizi, scuole materne, elementari e medie con orari ragionevoli e solo scioperi “virtuali”, come dice il professor Ichino, per non lasciarle a piedi, un sistema sanitario che non scarichi sulle donne l’assistenza ai vecchi e ai malati e altro ancora, qualità della vita insomma. Milano ce la farebbe? In quanto tempo? Difficile a dirsi ma certo non si sta muovendo in quella direzione. Abbiamo un sindaco donna, vale qualcosa?

L.B.G. 



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