19 ottobre 2009

LE POLITICHE SELETTIVE NELL’UNIVERSITA’ SERVONO ?


La decisione di attivare, al momento dell’accesso degli studenti nelle università, meccanismi selettivi di varia natura – test di ammissione, valutazione del curriculum precedente, tasse – per orientarne le scelte e favorirne le iscrizioni sulla base delle loro vocazioni, è ancora oggi tabù. Ministri e rettori sanno che chi accenna all’uso di questi strumenti si brucia. Da almeno quarant’anni il pensiero della selezione agli accessi è, misteriosamente, politicamente scorretto.

Ci si può chiedere quali siano gli effetti di tale mancanza, e in particolare se l’assenza, o quasi, di selezione degli studenti secondo criteri di qualità e vocazione li danneggi e determini uno spreco di risorse. D’impulso viene da pensare che se, per difetto di selezione, lo studente rappresentativo è più o meno eguale in ogni sede, le università appiattiranno la loro offerta, i migliori godranno di un livello formativo inadeguato, pensato per la media, mentre gli studenti inadatti o poco interessati si accorgeranno a loro spese di avere sbagliato scelta. Naturalmente questa è solo un’ipotesi possibile, per la ragione che non sono misurabili gli effetti di una politica che non esiste. Eppure alcuni dati relativi alle università milanesi ci offrono al riguardo informazioni illuminanti, se accettiamo di interpretarle con un certo coraggio, anche a costo di qualche semplificazione.

A Milano, diversamente da ogni altra città, con l’eccezione di Roma, coesistono alcune università (private) che usano strumenti di selezione a fianco di altre (statali) che non li usano, o lo fanno in modo limitato. Rappresenta sempre un’eccezione, come noto, la facoltà di Medicina, dove ha luogo dovunque una forte selezione all’accesso. Inoltre possono anche esservi casi in cui la vera o presunta difficoltà dei corsi determina un fenomeno di autoselezione.

Prendiamo dunque come indicatore di qualità degli studenti che s’iscrivono al primo anno di università, il tipo di formazione avuta nelle medie superiori. Ipotizziamo che chi proviene dai licei sia di maggiore qualità avendo ricevuto una formazione migliore nella scuola e/o nella sua famiglia, tipicamente più scolarizzata. Naturalmente vi sono anche numerosi pessimi maturati di liceo e ottimi maturati di altre scuole, ma qui facciamo un’ ipotesi media. Ebbene, i dati ci dicono che tra il 1998 e il 2006 le due università che hanno la percentuale stabilmente più alta di studenti provenienti dal liceo sono il Politecnico – circa il 55% – e la Bocconi – circa il 73%. All’estremo opposto stanno lo IULM – 46% nel ’98 e 33% nel 2006 – e la Bicocca – 41% nel ’98 e 36 % nel 2006. Nel caso del Politecnico probabilmente vi è un processo di autoselezione; nel caso dello IULM e della Bicocca alcuni corsi sono “facilmente accessibili”.

Più interessante è il caso della Bocconi: un corso di laurea in Economia è certo meno pesante di uno di Ingegneria, eppure in Bocconi la formazione d’accesso è più alta. Il motivo è evidente: in questa università vi è una selezione all’accesso che, vuoi per l’effetto dei test di accesso e del curriculum liceale, vuoi per un fattore di autoslelezione – essere in Bocconi significa essere “ganzi” -, vuoi infine per effetto delle tasse d’ingresso, comunque sia opera egregiamente. Osserviamo per inciso che la Bocconi attrae più di ogni altra università lombarda studenti da altre regioni.

A questo punto ci chiediamo se a università più selettive corrispondono risultati formativi migliori. Prendiamo come rivelatori di soddisfazione degli studenti e di miglior uso delle risorse, il fatto che le matricole facciano subito fin dal primo anno esami regolarmente e passino al secondo anno: se così non fosse ne dovremmo trarre la conclusione che sono insoddisfatti, perché non risultano idonei o interessati ai corsi a cui si sono iscritti. Ebbene, in Bocconi nel 1998, e ancor’oggi, è minima la percentuale di studenti che rimangono inattivi il primo anno e che non si reiscrivono al secondo. Questo avveniva già prima della riforma e avviene ancora oggi, ad indicare una politica stabile. Il fatto di pagare tasse più alte indubbiamente contribuisce al risultato. Anche al Politecnico le percentuali erano e rimangono basse, ma maggiori che in Bocconi. Ben diverso è il caso delle università dove è più bassa la qualità d’accesso, misurata con il livello del diploma della media superiore. Alla Statale nel 1998 quasi il 40% degli studenti non si reiscrivevano al secondo anno, e il 45% rimanevano inattivi nel primo anno; per la Bicocca i dati erano, rispettivamente il 20% e il 20%; per lo IULM il 5% e il 10 %. Nel 2006 le percentuali si dimezzano per la Statale, diminuiscono per la Bicocca, ma aumentano per lo IULM, dove le mancate reiscrizioni al secondo anno passano al 21%. Questo apparente miglioramento delle statali dipende anche dal fatto che il carico di lavoro dei corsi è diminuito assai: non è un elemento positivo.

Ci sembra di potere inferire da queste semplicissime osservazioni che la selezione e il grado di soddisfazione della didattica sono direttamente correlate, e verosimilmente si influenzano reciprocamente. Là dove gli studenti sono selezionati e il livello delle tasse d’iscrizione morde, si lavora meglio e con più soddisfazione. In assenza di una politica nazionale, nella città di Milano si sono di fatto generate politiche selettive che hanno orientato i flussi degli studenti, con esiti non ottimali, proprio perché si tratta di decisioni singole che non entrano in un disegno collettivo. Una selezione coordinata a livello nazionale, capace di orientare rispetto alle facoltà e alle sedi rappresenterebbe un consistente passo in avanti per un complessivo miglioramento della formazione universitaria.

Francesco Silva



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