19 ottobre 2009

Scrivono 191009


Scrive Alfonso Marzocchi – Anch’io ho visto quell’orrore di cui parla l’architetto Gardella in piazza Piemonte: prima di abbandonare non so ancora se definitivamente o temporaneamente questa città (Milano, e per trovare verosimilmente altri orrori con cui dover fare i conti – a meno che non sia abbastanza abile e fortunato da riuscire ad abitare in qualche paradiso terrestre, o almeno in un luogo migliore), mi piacerebbe molto dare il mio contributo per abbatterlo: non possiedo tritolo, che comunque andrebbe maneggiato con esperienza e cautela, però se ci si organizzasse in una squadra di picconatori, magari con l’aiuto di una ruspa, la cosa si potrebbe fare .

La mia non è una provocazione: è un invito ad agire davvero per buttare giù quella schifezza, tanto più schifezza in una piazza con una storia e una quasi armonia. Certo che non sono per niente disponibile ad affrontare le prevedibili conseguenze legali di una simile cosa, anche se a rigor di logica-estetica (almeno la mia, e vedo non solo la mia) chi lo buttasse giù andrebbe premiato e invece punito chi lo ha fatto e chi lo ha autorizzato.

Dunque, che fare, tenuto anche conto che agire clandestinamente sarebbe possibile solo a qualcuno ben incappucciato e munito di esplosivo, e che questo qualcuno poi dovrebbe riuscire anche – oltre che ovviamente a non fare del male a nessuno né danneggiare gli stabili adiacenti come ad esempio il teatro nazionale – a installare al posto del ” mostrino ” un pannello con un bel progetto che rappresenti cosa ci dovrà sorgere al suo posto (e magari anche a rimuovere le macerie, ma forse neanche mandrake potrebbe tanto !)?

Un saluto, e attendo proposte utili e concrete per sconfiggere il regno delle tenebre (anche se poi non siamo sempre d’accordo su quali sono caso per caso queste tenebre …).

Scrive Giuseppe Ucciero – Caro Piervito, caro Riccardo, leggendo le vostre considerazioni me ne vengono delle altre, che vi propongo se avete un po’ di tempo e di pazienza. Una prima lancia la vorrei spezzare a favore di Piervito: lo “stile tardo” è tutto tranne che questione di stile, almeno per quel che penso lui intenda.

Lasciamo qui stare che altra cosa è lo “stile” e altra cosa la “classe”, come chiarì una volta per sempre il mai troppo compianto Gianni Brera, critico che non si lasciava abbindolare dagli estetismi del bello stile e preferiva, e vorrei ben vedere, Valentino Mazzola come miglior giocatore italiano di sempre, al pur grande Gianni Rivera.

La metafora di Piervito attiene invece ad una “apparenza di stile” che rimanda ad una realtà di sostanza, nel momento in cui “lo stile tardo” viene a declinarsi come la cifra di un profilo di dirigente ormai raro nel panorama del PD: grande esperienza, radicamento nel sentire di un popolo, attenzione al concreto, “ma anche” (absit iniuria verbis), una non completa adesione ad un presente febbricitante e mediaticamente compulsivo, una matura comprensione della complessità e “durezza” della nostra realtà di Paese, da cui non si può e non si deve fuggire immaginando di vivere in altri paesi e tradizioni politiche, magari desiderabili ma tuttora astratte  e infine un’ampia visione della vita delle imprese, dei lavoratori e dei territori.

In una fase politica estremamente delicata come quella attuale, nei cui caratteri e sviluppi tende ormai sempre più a svelarsi la fisionomia di un ritorno sotto diverse spoglie di un passato connotato dalla collusione pericolosissima tra il carattere eversivo di tanta parte della nostra classe dirigente ed una subcultura popolare permeabile alla demagogia, in questa fase, dicevamo, una leadership come quella di Pierluigi Bersani che abbia, con la memoria storica, la capacità di muovere e di rappresentare radicamenti popolari tuttora forti nel territorio, facendosi capire dai lavoratori, dalla piccola imprenditoria e dal management delle grandi imprese, facendosi ascoltare sia a Nord come a Sud, mi pare assolutamente essenziale per reggere la “botta” che lo schieramento avverso sta costruendo, passo dopo passo, metodicamente, con quel metodo della follia che è intrinseco alle innovazioni eversive della destra.

Dice Sarfatti: in Marino vedo un leader capace di fare innovazione e Dio solo sa quanto ce n’è bisogno. Vero, verissimo, che c’è bisogno di innovazione, ma personalmente ho molti dubbi che Marino abbia questo profilo e questo potenziale. La sua Mozione ci parla molto di temi etici, della produzione di beni immateriali, della rilevanza del sapere e del capitale umano, di laicità, ma ben poco, troppo poco, di come queste realtà –  valori innovativi si connettono ai mondi tuttora prevalenti del lavoro, del territorio, della fatica sociale di vivere. Vi è nella sua proposta e nel suo stile, la testimonianza di una lontananza, direi esistenziale, ancora troppo rilevante rispetto ad un mondo della produzione e del sociale che trova poco comprensibili sia parole poco consuete, che insistenze su temi percepiti come non centrali. Sembra a me che Marino parli un linguaggio più vicino a sia pur importanti ceti di borghesia urbana e delle professioni, a pezzi di società pur emergenti, e sia invece un po’ troppo distratto rispetto ad esigenze di tanta altra parte del nostro popolo.

La voglio dire grossa e chiara: se il PD pensa di ritrovare spazio ed ascolto nel Paese, operando principalmente sul tema dei diritti e non sa al tempo stesso trovare, o meglio ritrovare, con grande urgenza il senso della priorità della risposta alla crisi e con questa una nuova sintonia con operai, lavoratori dei servizi e piccoli imprenditori, commette un errore gravissimo, per certi versi irrecuperabile, aprendo la strada ad esiti nefasti di lunga durata.

Quindi tornando a Marino, un candidato certamente buono per parlare ad un’opinione che, per usare antiche classificazioni, potremmo definire laico – radicale, ma che non mi pare trovi le corde, e neppure le cerchi, di maggioritari strati sociali che vivono altre priorità ed altre emergenze, un importante componente di una squadra che gioca a tutto campo e non solo nella parte da lui mirata, insomma una buona ala sinistra.

Qui, quasi, mi pare invece di vedere un equivoco, laddove Sarfatti stesso, per motivare la sua adesione ad Ignazio Marino, porta proprio il tema del lavoro e del radicamento territoriale come elementi a favore, quasi che proiettasse una sua propria visione su quella del Marino. Mi sarò pure distratto, ma nel suo discorso alla Convention l’attenzione era posta alla scuola, al sapere, alla laicità ed ai valori etici, quali motivi fondanti della cittadinanza, se si vuole pure della povertà come condizione diffusa e crescente, ma non ho ricevuto l’impressione che il tema del lavoro e della crisi del sistema produttivo del Paese fosse esattamente al centro della sua analisi e della sua proposta.

Né d’altra parte, si deve contestare a Bersani ciò che invece fu un grave errore, e pour cause, del Segretario Walter Veltroni, quando, per innovare scelse di bypassare rappresentanze locali e radicamenti sociali effettivi, percorrendo la strada alternativa delle Icòne Sociali, delle Marianne Madie, portate in giro per l’Italia come Madonne Pellegrine senza aver mai  prima cantato ad una messa. Icòne idealtipiche: Il Giovane, La Donna, L’Imprenditore, profili sociali diversi ma per tutti una sola verità: sotto il vestito niente.

Qui occorre bene che ci si decida: non si può contestare una cosa ed il suo contrario, ovvero ricercare una strada e pensare ad un’altra contemporaneamente. Non si può dire cerchiamo il radicamento sul territorio e contemporaneamente mettere fuori gioco le classi dirigenti locali, per fare spazio ad outsiders che non si capisce bene da dove possano prendere la legittimazione a rappresentare cosa e per conto di chi.

Vi è qui una questione specifica, di grande importanza ed asprezza, che ha a che vedere, lo capisco bene, con la compatibilità tra gli insediamenti delle classi dirigenti originarie, diciamo pure piene di difetti ed attardate ma ancora parzialmente rappresentative, ed il tasso di innovazione e cambiamento necessario per ridare smalto alla sinistra ed alle tradizioni democratiche. Il PD è stato un tentativo di combinare tradizione ed innovazione, ma l’ambiguità perdurante delle scelte e degli assetti finora scaturiti mette tutti di fronte alla considerazione secca: sottoporsi ai vincoli della legittimazione misurabile con i criteri della raccolta del consenso interno, trovando spazi politici e di rappresentanza concreta, e giocarsela dentro, o prendere atto che questo non è possibile e giocarsela finalmente fuori, avendo allora gli attributi per farlo. Pretendere la leadership con i consensi raccolti da altri, non è né fair né soprattutto atteggiamento politico: è diciamo pure un sogno da mosche cocchiere o un’illusione,  l’effetto transitorio di una manipolazione non desiderata, forse furbescamente raccolta, ma poi alla fine effettivamente subìta.

Avanzare candidature alla leadership senza passare attraverso il fuoco della rappresentanza fondata sul consenso non appare né possibile né credibile.

Intanto il tempo passa, e come sempre accade, quando la paralisi fa premio sull’iniziativa, le cose  decidono per noi: così speriamo che il prezzo da pagare alla fine non sia troppo duro.

D’altra parte, bisognerà pur riconoscere che questa benedetta faccenda della investitura dal basso della leadership di partito (ben altro discorso sono le cariche monocratiche istituzionali) ci costringe, tutti, a proiettare un carico eccessivo di speranze, aspettative ed attese, su di un leader che, malcapitato, dovrebbe assommare in sé qualità sovrumane, quasi titaniche, per corrispondervi. Ragioniamo, investiamo forse troppo sulle persone e questo processo crea fossati. Il meccanismo semiplebiscitario delle primarie si sta rivelando una fatale scorciatoia percorsa finora senza molto costrutto, sia pure nel nobile intento di generare un cambiamento essenziale; una scorciatoia che mentre brucia una dopo l’altro capaci dirigenti, sovraesponendoli senza rimedio, non agevola la costruzione di un gruppo dirigente effettivamente coeso, capace nella sua complessività, e solo grazie a questa, di rispondere alla molteplicità delle istanze di rappresentanza che cercano spazio nel PD.

E forse vale allora la pena di riflettere su come, diversamente, ossia con quali diverse modalità, la forma partito possa essere innovata, dando rappresentanza alle appartenenze parziali o alle adesioni tiepide, senza caricarle di diritti ed obblighi eccessivi e fuorvianti.

Alla fine non vorremmo che, mentre il Presidente della Bocciofila della Bovisa è scelto dai suoi soli iscritti, e la Bocciofila della Bovisa anche per questo è una cosa seria, il Segretario del Partito Democratico, che non sarà associazione più seria ma almeno, concediamolo, non è meno seria, lo scegliessero i suoi simpatizzanti, vicini o lontani che siano, persone che, sia detto con tutto l’affetto ma anche con tutta la franchezza che impone un ragionamento politico non ipocrita, non si riconoscono nella sua proposta complessiva, persone dalle convinzioni intermittenti o parziali, persone magari come la Binetti, stimabilissima persona e cattolica democratica, che a seconda dei momenti è ora del PD ed ora no, dipende dalla sua autorevole coscienza, persone insomma che non condividono del tutto il programma politico, né tantomeno si sentono in qualche modo legati alla sua attuazione da un vincolo organizzativo, dall’esercizio di diritti connessi a specifiche  responsabilità liberamente assunte, e quindi obbligatoriamente di disciplina (oddio, che parola desueta), che sennò ovviamente si sarebbero iscritti.

E a queste persone,  stimabilissime e preziose per carità proprio in quanto simpatizzanti, a queste persone volta a volta non solo apportatrici di visioni nuove, stimolanti e diverse, ma anche tiepide, confuse o transeunti, a queste persone che non si sentono di condividere la responsabilità derivante da una scelta di appartenenza, ad esse diamo le chiavi, proprio le chiavi della nostra casa, e gli diciamo: noi non siamo capaci, nominate voi il nostro segretario, scegliete voi la nostra politica futura. Se questa non è fuga dalle proprie responsabilità, se non è populismo di sinistra, se non è finzione di partecipazione, se non è radicale messa in mora dei radicamenti territoriali e sociali altrimenti declamati, non si capisce nulla, ma proprio nulla, di politica e della effettiva espropriazione a cui questa pratica conduce.

Forse è ora di rimettere a posto qualcosa nel PD, è tempo di terminare la stagione dei Peter Pan e di ridare all’appartenenza politica il  ruolo che ad essa compete, perché fondato su di un maturo, responsabile e più concreto senso delle cose.

Pierluigi Bersani non sarà un Dio della Politica, ma appare oggi la persona, tra i tre candidati, che maggiormente esprime nella situazione data il più alto momento di mediazione in avanti sia nel partito e sia soprattutto nel Paese: per questo, oltre le differenze e diffidenze anche importanti che ciascuno può nutrire, il suo “Stile Tardo” appare come il tratto esteriore di una maturità politica, e di un metodo politico, capace di rappresentare gli interessi e le speranze del popolo democratico, idoneo a cercare un dialogo con altre istanze e mondi interessati e disponibili a contrastare le preoccupanti derive della nostra vicenda nazionale.

Qui termino, avendo forse abusato troppo dell’attenzione di Piervito, Riccardo e di voi tutti.



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