29 aprile 2015

musica – UNA SETTIMANA DI FIATI


UNA SETTIMANA DI FIATI

Zefiro è un vento che arriva da occidente, leggero come una brezza, ma da venticinque anni è anche il nome di un Ensemble di fiati “d’epoca” creato dai fratelli (gemelli) mantovani Paolo e Alberto Grazzi e dal loro amico romano Alfredo Bernardini, appassionati oboisti, fagottisti e costruttori dei loro preziosi strumenti; l’entusiasmo, la simpatia e soprattutto le grandi qualità musicali che li caratterizzano hanno fatto esplodere la loro fama e oggi Zefiro è uno dei più conosciuti Ensemble di fiati al mondo. I concerti e i CD dei loro “organici variabili” (dal trio fino all’orchestra barocca) portano ovunque una straordinaria eccellenza italiana.

musica16FBL’altra sera al Conservatorio Zefiro si è esibito in un concerto totalmente mozartiano in due diverse formazioni: nel primo tempo era un ottetto classico per fiati (due flauti, due oboi, due fagotti e due corni) che ha eseguito la Serenata n. 12 in do minore K. 388; nel secondo tempo si sono aggiunti due meravigliosi corni di bassetto, altri due corni e un contrabbasso, formando così una classica “Harmonienmusik” (quelle piccole orchestre da camera che si costituivano presso le Corti delle capitali europee fra il sette e l’ottocento) per eseguire la celeberrima “Gran Partita” – o Serenata – in si bemolle maggiore K. 361.

Sembrava di essere alla Corte dell’Imperatore, nell’Hofburg di Vienna, in quei magici anni ’80 del settecento in cui la città era al centro dell’Europa e viveva uno dei momenti più effervescenti della storia della musica; il gruppo di strumentisti di Zefiro (chissà perché tutti maschi e tutti rigorosamente in nero dalla testa ai piedi, ma con belle cravatte dai colori sgargianti, una diversa dall’altra) hanno inebriato il folto pubblico della Società del Quartetto con queste due gioiose e pervasive Serenate la cui scrittura riflette con grande chiarezza l’intento di divertire e intrattenere ascoltatori colti ed esigenti.

Nel programma di sala di Oreste Bossini – come sempre ricco di osservazioni e notazioni molto utili alla comprensione del concerto – viene riportata la frase con cui Don Giovanni, nella prima scena del Finale, invita i suonatori che accompagneranno la cena del padrone a dare inizio al concertino: “Già che spendo i miei danari io mi voglio divertir; voi suonate amici cari!” ed eccoci dunque al vero spirito della serata. Che non a caso si è conclusa con due bis rappresentati da perfette citazioni delle Nozze di Figaro (“Non più andrai farfallone amoroso“) e del Don Giovanni (“Là ci darem la mano“) mimate dagli stessi musicisti con grandissimo spirito ed esilarante teatralità (il fagotto-don-giovanni che concupiva l’oboe-zerlina era assolutamente irresistibile!). Una serata indimenticabile.

Sembra che in questi anni ci sia una gran voglia di rinnovare la liturgia del concerto di musica classica, anche attraverso operazioni discutibili, mentre la strada maestra sarebbe proprio quella di riproporre partiture collaudate di capolavori poco frequentati, scritti per organici difficili da mettere insieme e da inserire nel circuito dei recital e delle tournée orchestrali.

***

Un altro esempio di questo genere si è presentato il sabato successivo a villa Bossi di Bodio, sul lago di Varese, un luogo magico cui avevo già fatto cenno in questa rubrica nello scorso novembre. Lì il trio formato dal flautista Giuseppe Nova, dal fagottista Rino Vernizzi e dal pianista Giorgio Costa, ha eseguito un programma di trascrizioni di arie d’opera (Verdi, Donizetti, Bellini, Mozart) che si è concluso con le Quattro Stagioni di Piazzolla; musiche che hanno divertito enormemente il pubblico di appassionati cultori di musica da camera che una volta tanto, anziché concentrarsi sulla complessità dell’ascolto, hanno potuto provare il piacere dell’ascolto disimpegnato e giocoso.

***

Nella settimana appena trascorsa gli strumenti a fiato sono stati protagonisti anche del concerto diretto da John Axelrod all’Auditorium in cui è stata eseguita una suite orchestrale della “Ascesa e caduta della città di Mahagonny” – l’opera di Kurt Weill su libretto di Bertold Brecht – seguita dalla famosissima e amatissima Quinta Sinfonia di Mahler.

La piacevolezza della musica di Weil è arcinota e anche questa Suite è stata travolgente; forse non si è rivelata l’introduzione più appropriata alla Sinfonia di Mahler, sia dal punto di vista psicologico (da una parte ironia e indignazione, dall’altra la depressione e il senso della tragedia più profonda) che con riferimento alla cronologia (l’opera di Weil è stata scritta un quarto di secolo dopo quella di Mahler e c’è stata di mezzo la grande guerra!).

Non occorre essere dei grandi mahleriani per amare questa Sinfonia il cui “Adagietto” (unica parte senza fiati, affidata solo agli archi e all’arpa) è la struggente colonna sonora del film “Morte a Venezia” di Luchino Visconti, a sua volta tratto dal romanzo di Thomas Mann: un vero grandioso monumento letterario – cinematografico – musicale del novecento che tocca il cuore a qualsiasi appassionato di musica, dai più giovani ai più attempati.

Benché caratterialmente poco adatto a dirigere il cupo e depresso Mahler – e in particolare questa Quinta Sinfonia dominata dal senso della morte – grazie alla passione che le dedica e al temperamento che lo guida, il texano John Axelrod è riuscito a rivelare inattesi risvolti della grande costruzione sinfonica mahleriana e a suscitare forte emozione nel pubblico. Certamente il carattere estroverso del direttore ha prevaricato la compostezza e la concettualità dell’opera di Mahler (la gravità della Marcia funebre e la lievità dell’Adagietto, per esempio, si sono perse un po’ per la strada!) e tuttavia l’interpretazione che ne ha offerto non l’ha penalizzata più di tanto. Ovviamente anche in questo caso la parte del leone è toccata – non inopinatamente – ai legni e agli ottoni che hanno brillato per precisione, generosità e qualità del suono.

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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