22 aprile 2015

MATTINO DI SOLE IN PIAZZA GAE (GAETANA) AULENTI


La giornata del 27 marzo scorso fu una delle giornate tra le più terse, nelle quali l’arco alpino sembra essere prossimo alla metropoli: e Candoglia, da cui viene il marmo del Duomo, diviene un naturale orizzonte. Idealmente, quel viaggio di andata delle pietre dal lago, ai navigli, al Laghetto, potrebbe essere – in tale visibilità – un viaggio ideale di ritorno: per conoscere quanto sia cambiata la geografia della città vasta e policentrica: quella che fu la città-stato. Alla stazione Garibaldi, in attesa del servizio regionale per una di queste possibili destinazioni, anche conoscitive, ho esplorato per la prima volta Piazza Gae Aulenti, che pure altre volte, e senza diretta cognizione, ho giudicato.

 

05bono15FBLa prima osservazione, come giusto, è per i nipotini: forse bisognerebbe scrivere, tra parentesi, tra nome e cognome, il primo per intero: Gaetana: per una sicura e futura attribuzione di genere, quando la memoria breve non sarà bastevole. E già che avevo sconfinato dall’architettura urbana alla toponomastica, ho volutamente dimenticato, nella ricognizione, la veste di architetto, per valutarla, con santa ingenuità, al di fuori di qualsiasi ottica particolare: quanto sarà alta la guglia? Si può davvero comunicare parlando tra un livello e l’altro, servendosi delle trombe d’ottone?

 

Le domande che chiunque quel mattino si poneva; e non ho faticato a dimenticare ogni ruolo disciplinare, visto che la città qui presente, per logica o per caso, non mi ha offerto, nel suo corso, l’opportunità di realizzare progetti. Più consapevole architetto, quel mattino, avrei invece richiamato alla mente alternativi e diversi progetti per le Varesine nel loro insieme: ad esempio quello, cui partecipai, del gruppo di lavoro di Aldo Rossi per il concorso di idee che a suo tempo si svolse. Ma, nello stato di grazia di stupito e forse invidioso flaneur, tutto mi sembrava bello, buono e gradevole, fino ad esclamare, come tutti: come è cambiata Milano! Sentimento comune che si associa, almeno nel suo primo grado, a un valore positivo e promettente. Anche le torri del bosco verticale, che sull’invaso s’affacciano mi apparivano pensate, corrette, discretamente materiche, specie con gli alberi ancora tenerelli, quindi pittorici.

Potesse tale cambiamento continuare, anche con Expo; e tutto il resto …

 

Senza dimenticare, comunque, una certa verità: tutte le diffuse e nuove realizzazioni non hanno risolto i problemi di fondo della metropoli, che sono ancora urgenti e aperti, ma hanno in ogni caso creato molte aspettative, anche fiduciose, che ora bisogna, per così dire, nutrire, se si vuole sostenerle: e con grande visione, proprio come “nutrire il Pianeta”.

 

E allora, finita la gibigiana della cavea, annoto un’osservazione fatta dal sempreverde Piero Bassetti, in un recente incontro presso il Centro Studi P.I.M., che in questo senso appare stimolante: il tema di Expo non consiste solo nel cibo per sostenere la vita, ma nel nutrimento della Terra perché la vita sia sostenibile o durevole: mentre sembra invece che la terra, noi, la stiamo divorando.

 

È un’osservazione che ben si adatta a un possibile e nuovo punto di vista: non più partire dalle differenze eterne tra “novatori e conservatori”, o dal confronto tra poetiche, tendenze e stili, ma partire dalla grande ricognizione conoscitiva per accedere, nel vivo delle cose, alla grande visione della “città mondiale”.

 

Tale ricognizione – per quanto attiene l’architettura della città – non può che avvenire per punti e per luoghi (rossianamente la città per parti); e questi luoghi, ex post, non coincidono mai con le dimensioni progettuali d’origine ma debbono essere riconsiderati e riproposti, anche utilizzando il buono del corpaccione globalizzato: ricostruendo (o riprogettando) idealmente il “discreto di punti” su cui fondare una nuova, necessaria tessitura.

 

Entro questo grande compito, e prospettico, vorrei fare una considerazione piccola e attuale. Partendo da un’osservazione: è pur vero – come si disse nel convegno citato – che saranno i flussi a cambiare i luoghi, ma spetta pur sempre al progetto di metterli in relazione tra di loro.

 

Allora le Varesine, o Porta Nuova, così come si stanno realizzando, mi appaiono non come una parte nuova, inserita nelle dismissioni antiche, ma come una progressione difforme, con tensioni diverse. Accanto alla Stazione di Porta Garibaldi il manufatto acquista un senso, anche comprovato dal senso comune; ed esso è rafforzato dall’alta accessibilità del Passante ferroviario, sia pure ancora lento nel suo esercizio, dotato di un grande numero di stazioni intermedie che offrono troppe opportunità al centro, e troppo poche alla regione.

 

Nella parte di mezzo, la fabbricazione è ancora poco significante, come le altre torri che dalla piazza si vedono, quelle dotate di tanti e apparentemente troppi balconi vitrei. Poi c’è il giardino, ancora un po’ casualmente incastonato, anche se progettato con raffinatezza e cultura, che potrebbe ricordare il settecentesco parco di Nottingham di Colin Campbell.

 

Infine c’è il dialogo terminale con la città storica di Repubblica (con la storica intrusione della Stazione centrale), decisamente impacciato e inespresso, simboleggiato dall’edificio terminale a diamante, con la sua “stupida forma”, che dovrebbe chiedere scusa alla Chiesa di San Gioachino (e sembra che già un poco vi si inginocchi).

 

Nello scenario persistente che oggi – come ai tempi del Manzoni – rende visibili il Resegone e il Monte Rosa, il nuovo a Milano non è stato risolutivo, ma casuale e intrusivo, come ci sembra lo sia anche il complesso di Expo, con quel Palazzo Italia visibile ma non descrivibile. E per convincerci del contrario, che un nuovo vero ci sia, dobbiamo ricorrere a nozioni che sono semplicemente flatus vocis, come quella di “raggi verdi”.

 

Meglio ritornare, anche senza pregiudizi estetici, ai fatti urbani: e non come espressione di una presunta civiltà globalizzata, ma – se possibile – di una civiltà possibile.

 

Cristoforo Bono

 



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