22 aprile 2015

LA CASA DELLE DONNE DI MILANO: GUARDARE ALL’ONU A PECHINO E AGLI UOMINI


Quanto è cambiato il mondo negli ultimi venti anni? Tanto, se si guarda alle tecnologie e alla globalizzazione, troppo poco, se si parla di pari opportunità e di diritti delle donne. In molti Paesi, infatti, la lotta per il riconoscimento delle libertà e dell’autonomia femminile è tutta in salita; la crisi economica internazionale è un macigno sulle donne; i fondamentalismi, religiosi e non, una minaccia. La Casa delle Donne di Milano, da un anno punto di incontro e di confronto di donne di tutte le generazioni, provenienze e orientamenti sessuali, ha scelto di proporre una riflessione sul tema. Il Gruppo Networking internazionale della Casa milanese è infatti impegnato a studiare e analizzare alcune questioni centrali dei movimenti femminili internazionali.

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A venti anni dalla Conferenza dell’Onu di Pechino, che nel 1995 attirò 30mila donne da ogni angolo del globo e diede vita a quella Piattaforma d’Azione che, ancora oggi, è considerata il testo politico più rilevante sui diritti delle donne, con le sue dodici aree di intervento, dalla povertà all’educazione, dalla salute, al lavoro, all’ambiente, alla violenza, ha proposto, il 18 aprile a Palazzo Marino, il convegno internazionale “20 anni dopo Pechino. Le sfide per i movimenti delle donne oggi nel mondo“. A dirigere i lavori Cesarina Damiani, Gruppo Donne Internazionale della Casa, che ha introdotto la giornata. Presenti attiviste provenienti dal Nord e dal Sud del pianeta, dalla Norvegia all’Egitto e alla Tunisia, che hanno illustrato le strategie di “resistenza” messe in atto dalle donne che ogni giorno fronteggiano sistemi di patriarcato antico e moderno. Tra loro anche Marina Sangalli, counsellor milanese, socia fondatrice della Ong Graal Italia, di ritorno dall’assemblea di New York, dove si è svolta nello scorso marzo la riunione della Commission on the Status of Women dell’Onu.

A margine, abbiamo fatto il punto della situazione. “Per una piattaforma completa e visionaria come quella di Pechino, a distanza di 20 anni gli obiettivi restano tutti” afferma Sangalli. “Nessun Paese ha raggiunto la parità di genere; nel Nord Africa, dopo le primavere arabe, la condizione femminile è peggiorata; in Paesi come Nigeria o Kenya la stessa istruzione superiore è una conquista a rischio della vita. Però la mobilitazione è forte, forse proprio perché parte da obiettivi di sopravvivenza. E valutando anche i progressi, che pure ci sono stati, di questo passo serviranno altri 80 anni. Non stupisce che occorra tanto tempo, ma questo non significa che non si possa accelerare con risorse adeguate, anche in tempo di crisi”.

Accelerare il cambiamento, dunque, è l’imperativo: dopo Pechino i movimenti delle donne si sono frammentati e lavorano in condizioni e situazioni diverse, “affinano le loro competenze e la capacità di lobbying“, spiega Sangalli. “E l’Onu è un riferimento istituzionale importante” sottolinea. “Può definire i Millennium goals e gli indicatori per i prossimi quindici anni, però non ha una capacità di pressione perché i governi realizzino questi obiettivi. La sua mission è stabilire le direzioni, gli orientamenti condivisi. Da una parte, dialoga con i governi; dall’altra apre un canale con la società civile e identifica come interlocutori le Ong, cioè, le organizzazioni non governative con finalità di cambiamento sociale. Quindi, dai governi l’Onu si aspetta interventi sul quadro normativo, mentre lascia alla società civile l’obiettivo di innescare il cambiamento culturale. Puoi avere tutte le leggi che vuoi, ma se poi la società non è pronta per applicarle, le leggi muoiono, non producono cambiamenti”.

Per questo è quanto prima auspicabile il coinvolgimento degli uomini. “L’obiettivo della parità” continua Sangalli “deve essere condiviso, perché non è raggiungibile senza la partecipazione degli uomini. Il dramma della violenza sulle donne, per esempio, non si estingue se non si lavora alla radice, coinvolgendo i maschi in un percorso di riconoscimento ed educazione. Su questo, all’estero, ci sono molti progetti: in Brasile, Indonesia, Ruanda e Sudafrica, ce n’è uno finanziato per tre anni dal governo olandese e portato avanti da una Ong per introdurre la cultura del caring, del prendersi cura, tra i neopapà. Perché si inizia a prendersi cura del proprio figlio per arrivare a prendersi cura del pianeta, della comunità. Ciò porterà questi padri a essere uomini meno inclini alla cultura della violenza. Tema poco presente nel dibattito pubblico italiano”.

E pensare che le donne sono da sempre il motore del mondo: producono i 2/3 del cibo ma pagano in modo più pesante le conseguenze di una crisi che le espelle dal lavoro e le riporta a ruoli dai quali istruzione e progresso le avevano sollevate. “Tra i mercati emergenti molti analisti indicano, insieme a Cina e India, proprio le donne: bisogna prendere consapevolezza del potere economico femminile. Ma che tipo di mercato vogliamo essere: quello che si adegua alle pressioni dell’economia globale o quello che propone un’alternativa?” si chiede Sangalli. E la domanda è un nuovo punto di partenza.

 

Gabriella Persiani

 

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