22 aprile 2015

UE, UNA UNIONE DI SONNAMBULI SENZA META


La burrasca della crisi rimescola le acque e riporta a galla anche il nazionalismo, con volti diversi. Uno è il nazionalismo superato dalle donne trentine deportate in Austria nel 1915 all’entrata in guerra dell’Italia, annuncio dei lager della seconda guerra mondiale e dei campi profughi oggi. Tre di loro hanno scritto pensieri e esperienze, riversati da Elena Marino in forma drammatica e teatrale col titolo Voci nella tempesta e la Compagnia Teatrincorso. «Siamo austriaci come voi, anche se parliamo italiano» dice una di loro. Appartenere alla stessa comunità pur parlando lingue diverse, è il fondamento dell’Unione Europea, erede della «guerra nella guerra» combattuta allora dalle donne trentine «su molti più fronti: per la giustizia e la verità, prime vittime belliche, per il senso d’umanità, per la dignità dell’essere umano in quanto tale» (www.teatrincorso.it). Il successo del debutto a Bolzano il 21 febbraio 2015 è stato preceduto da un seminario di presentazione che aveva tra il pubblico il figlio di una donna deportata, giunto a tarda età anche perché nel 1943 a Cefalonia gli risparmiò la vita un compaesano di lingua tedesca.
11gario15FBSul fatto che in Europa le lingue uniscano più che dividere «il linguista francese Antoine Meillet, vissuto tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, ha scritto una pagina molto illuminante a proposito del vocabolario, quello della cultura quotidiana ma anche quello intellettuale, sostenendo che “a dispetto dei nazionalismi miopi, in realtà un’analisi spassionata del lessico delle lingue europee dimostra che vi è un fondo comune molto superiore alle differenze». Lo ricorda Tullio De Mauro, e accenna alle reti di condivisioni che l’hanno formato, dalla diffusione e adozione dell’alfabeto greco «(di origine fenicia, come la ninfa Europa)» agli «”astratti” ideali delle grandi comuni utopie, le parole e i testi in cui si sono concretate, l’Utopia appunto di Tommaso Moro, le parole della Rivoluzione francese, liberté, égalité, fraternité, il Manifesto per eccellenza; il regime parlamentare» [In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia?, Roma – Bari, 2014, pp. 60 e 13-14].
L’altro è il nazionalismo riesumato da Putin dopo il tritacarne neoliberista del mercato istituzione assoluta, padrone della politica, religione e società: primo esperimento europeo di shock economy, di neoliberismo imposto in pochi mesi nel momentaneo vuoto politico, sociale e economico dovuto a un disastro (nel caso, un colpo di stato). Quando subentrano delusione e rabbia contro le crescenti ingiustizie e miserie neoliberali, il nazionalismo è la reazione più ovvia, basta un leader capace di fare leva su delusione e rabbia, cerino che dà fuoco alle polveri.
Al volto di Putin sono associati, anche tramite le tesorerie di partito, quelli di Marine Le Pen e altri leader cosiddetti populisti in un’Europa appunto accusata di fare solo gli interessi dei potenti. Hanno i tratti fascisti della paura del futuro di parte dei ceti popolari e medi, all’istintiva ricerca di capri espiatori da espropriare. Così in Europa è tornata la guerra tra Stati, non più ‘umanitaria’ come nell’ex Jugoslavia.
Guerra rivelatrice. Il premier inglese Cameron è criticato dall’ex vice-comandante supremo NATO generale Richard Shirref, per l’inazione che lo rende «insignificante in politica estera»; e da Rory Stuart, presidente conservatore della commissione difesa dei Comuni, per una lotta contro lo Stato islamico di «impressionante modestia» [Le Monde, 24/02/2015, p. 14]. Il 20 febbraio la Camera dei Lord britannica, in un rapporto sulla Russia, individua «una forte componente di sonnambulismo» dell’UE nella crisi ucraina. Dopo aver commesso «errori catastrofici», gli Stati membri sono stati «presi alla sprovvista» dal Cremlino e in un anno la crisi è divenuta la più grave dalla guerra fredda. Il riferimento è al libro Così l’Europa dei sonnambuli arrivò alla grande guerra, dello storico Christopher Clark: oggi come allora i governi nazionali non sanno capire la situazione né prendere la giuste decisioni, e Pierre Vimont, segretario generale del servizio diplomatico europeo, conferma ai Lord di essere «molto impressionato dalla competenza» sulla Russia del servizio diplomatico UE anche in confronto alla diplomazia francese [p. 2].
L’UE non ha governo, pur disponendo di un parlamento e di un competente servizio diplomatico. A (non) decidere sono i governi nazionali, impotenti in un mondo interdipendente e interattivo sul piano economico, culturale e tecnologico, ma sul piano politico un puzzle di Stati quasi tutti troppo piccoli e inadeguati per governare gli eventi, o anche solo capirli. Incubatore del nazionalismo autodistruttivo è proprio la finzione giuridica di sovranità in capo a Stati che non l’hanno più, come Hans Kelsen scrisse già nel 1920.
La necessità di dare all’Europa un governo effettivo è confermata dal ruolo assunto dalla Banca Centrale Europea «da quando, esplosa la crisi, si è trovata sola di fronte a governi incapaci di intendersi sulle misure urgenti da adottare in un’area euro istituzionalmente incompleta». «Ormai c’è consenso tra i membri della BCE: tutti valutano che sia stata l’inefficacia degli Stati e della Commissione a spingerli all’azione, e ora basta». Come dice lo stesso Draghi, è ora necessario un migliore coordinamento delle politiche di bilancio: «in altre parole, mirare più alto dall’austerità e puntare sulla cooperazione di bilancio e politica». In chiaro, puntare su un governo europeo [Le Monde Économie&Entreprise, 06/03/2015, p. 2]. Diplomazia UE e BCE sono competenti, ma senza un vero governo europeo, con scarsi risultati.
Ai conservatori e laburisti inglesi in crisi per l’avanzata dei nazionalisti dell’UKIP, The Economist spiega che «devono essere onesti, dicendo francamente agli elettori che le forze del cambiamento tecnologico e della globalizzazione sono inarrestabili e ineludibili – e anni di difficili riforme ci attendono» [21-27/2/2015, p. 11]. Vero, ma non basta. È necessario un processo politico che unisca il mondo nel garantire i diritti umani, «per la giustizia e la verità, per il senso d’umanità, per la dignità dell’essere umano in quanto tale», come ci dicono le voci nella tempesta giunte fino a noi. Purtroppo, per ora abbiamo solo un dinamismo fine a se stesso, energia distruttiva fuori controllo.
«Sarebbe temerario il predire per quali vie dirette e indirette la tendenza all’unificazione del globo, che ogni giorno si fa più piccolo, potrebbe raggiungere la sua meta: soltanto è certo che non vi rinuncerà, dovesse pure avvenire questa cosa miracolosa: che l’umanità dappertutto nello stesso tempo sperimentasse un cambiamento del modo di pensare e abbandonasse il cammino della lotta per il potere, sul quale essa, sferzata dallo scatenato demone della volontà di vivere, avanza furiosamente nonostante l’orrore da cui nel fare ciò viene agitata». Lo ha scritto nel 1948 lo storico tedesco Ludwig Dehio [Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna, trad. it. Bologna 1988, p. 242]. È cronaca di oggi.
Ormai le banche globali, matrici della crisi, sono anch’esse in crisi: «secondo gli standard normali, sono conglomerati inefficienti che stentano a usare bene le loro risorse» e «se non cambiano meritano di divenire solo un altro fallimento della finanza». Questo avviso di fine bolla si unisce al promemoria sulla guerra nucleare: «Sei anni fa Obama ha giustamente ammonito il mondo da ogni autocompiacimento sulle armi nucleari. La consapevolezza che un giorno, anche accidentalmente, una o più armi nucleari possono essere usate è motivo per lavorare duramente a evitarlo. La cosa migliore è cercare i modi per restaurare una effettiva deterrenza, impedire la proliferazione e tornare alla caparbia fatica di negoziati sul controllo degli armamenti tra le potenze nucleari più importanti» [The Economist, 07-13/03/2015, p. 10 e p. 20].
Alle donne trentine e a quelle che ridanno loro voce siamo perciò grati perché condividono con noi la coscienza dei rischi mortali del nazionalismo, grazie al teatro dove, al di là del dare e avere, in cambio della nostra partecipazione insieme acquisiamo una umanità che da soli non possiamo avere, né tanto meno comprare. Ed è sempre più preziosa.
Giuseppe Gario



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