1 aprile 2015

IL MUDEC, CHIPPERFIELD E “I DETTAGLI”


Del Corno è un assessore che lavora molto e in silenzio. Le sue poche dichiarazioni sono sempre sintetiche e molto concrete, ma sulla polemica MUDEC / Chipperfield ha sbagliato – non avendo competenza sulla esecuzione dei lavori – a riportare pubblicamente, e senza verifiche, quanto gli avranno riferito dall’assessorato ai Lavori Pubblici. Il tema ha un rilievo – non solo per coloro che per mestiere si occupano di progettazione e di costruzione, ma anche per la generalità degli utenti delle opere pubbliche – e merita una riflessione.

05caruso13FBIl progetto di Chipperfield è eccellente. Soprattutto i suoi spazi di accoglienza al piano terra, la scala e la grande piazza luminosa al primo piano sono di una qualità davvero rara tra gli spazi culturali milanesi. Finché lo sguardo non si posa sul pavimento di lastre lapidee, molto diverse tra loro, molto macchiate, alcune rotte e poi sigillate. Addirittura, al primo piano, il loro allineamento non corrisponde a quello delle lastre verticali del rivestimento del parapetto della scala, perché il marmista ha sbagliato le misure: ha tagliato le lastre verticali tutte uguali, senza tenere conto del giunto di dilatazione del pavimento.

Del Corno ha definito – facendo suo quanto gli hanno riferito – i difetti “dettagli”, rimandando al giudizio di un soggetto terzo, che ovviamente si concluderà, se il soggetto terzo vorrà individuare i difetti come tali, con una detrazione all’impresa e null’altro. Difendendo la decisione di aprire comunque il museo, è stato anche detto che i collaboratori dello studio Chipperfield avevano svolto un sopralluogo nella cava e avevano approvato un campione di lastra. E le responsabilità del direttore dei lavori, che era di nomina comunale? Il direttore dei lavori avrebbe dovuto – perché questa è la sua mansione – verificare che le lastre fornite corrispondessero al campione approvato, che fossero prive di difetti, che il casellario fosse corretto, che la posa fosse eseguita a regola d’arte. Non lo ha fatto. E Chipperfield è anche stato generoso, contestando soltanto il pavimento, perché, per esempio, i pannelli lignei tipo MDF che rivestono tutte le pareti al piano terra risultano in parte disallineati e spesso non complanari.

Non si tratta di dettagli, ma della qualità di un’opera che è costata molti milioni di euro e che i tecnici del Comune avrebbero dovuto seguire, dirigendo i lavori delle imprese appaltatrici, nel modo più intransigente, utilizzando appieno i poteri che la normativa attribuisce loro.

Degli spazi culturali inaugurati negli ultimi anni – il Museo del ‘900, le Gallerie d’Italia, il MUDEC – il primo ha sfigurato i pregevoli ambienti del ‘900 preesistenti, mentre l’ultimo, il cui progetto era il più importante e innovativo, con la sinuosa piazza opalina illuminata dall’alto, che sospende l’attenzione del visitatore preparandolo alla concentrazione necessaria alla visita, è stato realizzato male.

Perché, dei tre citati, l’unico spazio privato è quello più apprezzabile, pur essendo un museo di concezione e distribuzione così tradizionale? Perché non ci impegniamo a mettere in crisi il luogo comune, ormai consolidatissimo, che solo il privato può perseguire pienamente la qualità?

David Chipperfield viene definito giornalisticamente come un’archistar. A parte che il termine archistar sa di disprezzo, un po’ di destra populista, per la cultura – anche se molti degli architetti così definiti lo meritano, per la professata concezione del mestiere molto lontana dalla sua dimensione civile – Chipperfield invece è un architetto rigoroso, scevro da atteggiamenti spettacolari, attento all’urbanità (si veda il recente progetto berlinese di Joachimstrasse). E temo che diventerà l’ennesimo architetto straniero che rifiuta di lavorare in Italia.

Il tema della qualità esecutiva è, per gli architetti italiani, un grande tema dell’attualità. Stretti tra le imprese che, in gran parte, cercano di risparmiare su tutto (per recuperare lo sconto eccessivo) e tentano di mettere il direttore dei lavori davanti al fatto compiuto, e il committente – per lo più insensibile per ignoranza alle ragioni della compiutezza e coerenza esecutiva dell’opera – che alla fine concorda con l’impresa per risparmiare grane e tempo, gli architetti vivono un mestiere molto pesante, spesso scoraggiante.

E poi al MUDEC c’è la questione dell’allestimento delle due mostre inaugurate, sulla cui qualità non si può tacere. Mondi a Milano è una mostra colta, riferita in modo intelligente all’evento di Expo, ma l’allestimento è dilettantesco, graficamente sovraccarico. Africa mette in mostra sculture lignee preziosissime, ma i commenti che guidano il visitatore, privi di un inquadramento storico-critico sui diversi popoli del continente nero, rivelano un atteggiamento un po’ colonialista – di curiosità per la cultura dei selvaggi – e il suo allestimento, che vorrebbe essere scenografico, risulta invece improvvisato e artigianale.

Gli spazi del museo, pensati da Chipperfield come una sequenza di rettangoli illuminati dall’alto, non sono stati utilizzati per le loro dimensioni e qualità, a cominciare dall’interessante spazio intermedio (tra la sinuosa piazza centrale e le sale) desolatamente vuoto. Se è vero che l’architettura dei musei deve offrire spazi disponibili a ogni azione espositiva, è anche vero che chi ordina e allestisce lo deve fare non prescindendo dal carattere degli spazi a disposizione.

Milano, che ruolo vuole avere nella cultura europea? Non dico di guardare all’immenso parigino Musée du quai Branly a Parigi ma almeno all’esempio del piccolo Museum der Kulturen di Basilea, capace di mettere in scena immagini, oggetti e racconti delle culture altre dalla nostra, con allestimenti spartani, elementari e diretti, scientifici, didatticamente utili alla conoscenza di quei mondi. E lavori perfetti, eseguiti con “normale” rigore.

Con qualche mese di più, avremmo potuto finire i lavori a regola d’arte e avremmo potuto pensare un po’ di più agli allestimenti. Tra 15 anni e 15 anni più tre mesi, non fa molta differenza.

La questione è sempre la stessa, sono le modalità di affidamento dei lavori, ed anche la qualità di chi li dirige. Piazza XXIV Maggio è un esempio di modalità inadeguate di affidamento, del progetto oltre che dei lavori. Il risultato è lì da vedere, e non nascosto dentro il cortile dell’Ansaldo, ma in mezzo al teatro della città. Ma è un altro discorso.

 

Alberto Caruso

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti