18 marzo 2015
BEN ZAKEN
di Efrat Corem [Israele, 2014, 85′]
con Eliraz Sade, Rom Shosham
Dal 20 al 28 marzo, Milano ospiterà la rassegna cinematografica “Sguardi altrove Film Festival” che quest’anno si sofferma sul tema “Identità plurime. Identità negate. Diaspore territoriali”. Il film che segnaliamo in questa rubrica è “Ben Zaken” della regista israeliana Efrat Corem, film presentato al Berlin International Film Festival di quest’anno, che verrà trasmesso al l’Oberdan
domenica 22 marzo alle 21,00.
È la storia di Shlomi, giovane padre single, e di sua figlia di dieci anni Ruhi. I due vivono con la madre e il fratello maggiore di lui, in una cittadina squallida, in una casa senza colori, in un mondo in cui gli affetti, che pur ci sono, restano inespressi. L’amore fra loro è un amore ruvido, in cui la passione emerge solo nello scontro. Shlomi è un uomo inadatto alla vita, che lavora stentatamente e solo grazie al fratello; un uomo che vorrebbe proteggere la figlia, ma semplicemente non ne è capace.
Della situazione politica israeliana in questo film non c’è traccia, non esistono una questione palestinese, una guerra alle porte. La religione è presente solo perché il fratello maggiore frequenta la sinagoga, ma non sembra permeare la vita dei protagonisti.
Il mondo intorno al piccolo nucleo familiare è grigio a sua volta, piccino, modesto, mediocre e minaccioso: i compagni di scuola di Ruhi appaiono solo in conflitto con lei; un vicino di casa cerca di attrarla nel proprio appartamento.
La relazione coi servizi sociali viene rappresentata con degli intensi primi piani di Shlomo o di Ruhi che rispondono a delle voci che pongono domande. I servizi sociali sono disincarnati e Efrat Corem rende bene, in questa assenza di persone, la disumanità di un sistema che, pur con buone intenzioni, non riesce a interagire in maniera empatica con chi ha bisogno.
Unico personaggio vitale con cui la famiglia entra in contatto è una giovane donna innamorata di Leon, il fratello maggiore di Shlomi.
I vari personaggi sembrano non riuscire a vivere pienamente, ma solo a sopravvivere, e già il sopravvivere è penoso. Il film non si avvale di musiche. Si tramanda che sant’Agostino abbia detto: chi canta, prega due volte. In questo film l’assenza di musica rimanda esattamente alla mancanza di fede, di fiducia, di speranza.
Eppure la giovane Ruhi, con i suoi capelli intrecciati e lo sguardo netto, scuro, lucido è un personaggio grande, con una voglia di vivere che la fa essere ribelle, che le fa provare amore e fiducia per quel padre che non riesce a proteggerla, ma che non acconsente a rinunciare a lei, affidandola ai servizi sociali.
E le sue ultime parole al padre riempiono di speranza: “The sore got better“.
Tootsie