18 febbraio 2015

musica – LO SLANCIO ROMANTICO


 

LO SLANCIO ROMANTICO

Milano Classica – l’istituzione promossa e diretta da Marica Morosini che organizza la bella stagione di concerti domenicali nella Palazzina Liberty di Largo Marinai d’Italia – ha proposto con l’accattivante titolo “Lo slancio romantico” un colto confronto fra due opere particolari del panorama della musica da camera dell’ottocento: i due Quintetti per archi e pianoforte di Schumann (1864) e di Dvořák (1887). Benché lo stesso genere, nella seconda metà dell’ottocento, sia stato frequentato anche da Saint-Saëns, Frank e Fauré, possiamo dire che ai due mancava solo quello di Brahms (1884) per completare il quadro poiché il clima musicale “asburgico” o “mitteleuropeo” che li caratterizza ha ben poco a che fare con quello francese. Sono tre compositori le cui vite hanno ruotato in gran parte intorno ai Carpazi (Lipsia, Vienna, Praga) e si sono molto incrociate fra di loro (i rapporti fra Schumann e Brahms sono arcinoti, quelli fra Brahms e Dvořák quasi altrettanto); si sentivano orfani di Beethoven e di Schubert, e questa loro comune discendenza, a dispetto delle diverse ispirazioni tematiche e dei trent’anni di differenza fra le loro età, è assai facile da percepire.

musica07FBDiciamo subito che il confronto – propostoci dall’ottimo Quartetto Stradivari con l’aggiunta della brava Francesca Rivabene al pianoforte – viene vinto alla grande da Dvořák che con il Quintetto in la maggiore ci offre una delle sue creature migliori: due “allegro” – primo e quarto tempo – costruiti su un unico tema intriso i nostalgia e di calore slavi, che incastonano i due tempi centrali fra loro diametralmente opposti. Il secondo tempo è una “dumka” (canto popolare lento di origine ucraina con un carattere normalmente narrativo ed elegiaco che in questo caso diventa languido e struggente) e il terzo è un “furiant” (valzer di tradizione popolare boema, vivacissimo e con frequenti mutamenti di battuta); Dvořák con un colpo di genio non solo li accosta ma avvolge l’intero Quintetto in una sorta di vaga reminescenza schubertiana e lo conclude con una magnifica fuga. Un vero, grande capolavoro.

Non altrettanto si può dire del Quintetto in mi bemolle maggiore di Schumann, di derivazione più beethoveniana che schubertiana, che ha il merito di inaugurare il particolare organico costituito dal pianoforte con i quattro archi classici (due violini, viola e violoncello); Beethoven non ci si era cimentato mentre Schubert – nel Quintetto detto “della trota” – aveva usato il contrabbasso senza raddoppiare il violino. Una innovazione importante, che porterà molto lontano, ma questo primo esempio è purtroppo debole; nonostante alcuni momenti sublimi, di grande lirismo e dolcezza (come la marcia funebre del secondo tempo) o di travolgente eccitazione (come lo scherzo del terzo tempo), il Quintetto schumanniano rimane slegato e fondamentalmente poco ispirato.

Siamo abituati a portare in palma di mano Robert Schumann, attratti non solo dalla grande eleganza della sua scrittura ma anche dal fascinoso romanzo della sua vita, e a considerare Antonìn Dvořák un musicista di rango minore. Credo che questo giudizio sul compositore boemo vada radicalmente rivisto: le sue nove sinfonie, i concerti per violino, per violoncello e per pianoforte e orchestra, la sua musica da camera (trii, quartetti, quintetti) per non dire della sua musica sacra (Stabat Mater, Messa in re, Requiem), sono altrettanti capolavori che appartengono a pieno diritto alla grande storia della musica della seconda metà dell’ottocento. Aver messo vis-à-vis i due Quintetti ha ben illuminato quella differenza fra cultura sassone e cultura boema che colpisce enormemente chi percorre l’itinerario che da Praga porta a Dresda scendendo dapprima lungo la Moldava e poi lungo l’Elba; il mondo cambia profondamente nel parco nazionale della cosiddetta “Svizzera Sassone” quando alla “Gola del lupo” si attraversano i Carpazi nel mitico luogo in cui Carl Maria von Weber ha ambientato “Il franco cacciatore“. Finisce il mondo slavo, inizia quello germanico.

Di altissima qualità l’esecuzione dei due Quintetti affidati a una compagine che ha una bella e curiosa storia alle spalle, la storia di due famosi musicisti rumeni – il marito è un violoncellista, la moglie una violinista – che da anni vivono in Italia su un piccolo lago a metà strada fra il lago Maggiore e il lago di Varese, e che si sono guadagnati una solidissima fama internazionale sia come interpreti che come insegnanti; lei è Mariana Sirbu, lui Mihai Dancila, fondatori nel 1968 del Quartetto Academia, e nel 1994 del Quartetto Stradivari di cui fanno tutt’ora parte. Mariana Sirbu, il primo violino che va avanti e indietro da Lipsia dove insegna il suo strumento, ha fatto parte con Bruno Canino e Rocco Filippini del “Trio di Milano”, e con Salvatore Accardo della famosa orchestra da camera “I Musici”; Mariana e Mihai, insieme, hanno avuto da sempre come compagno di strada il bravissimo violista, compositore e direttore d’orchestra Massimo Paris e da qualche anno, nel ruolo di secondo violino, la loro figlia Cristina Dancila. Infine in questa occasione sono stati ottimamente accompagnati da una pianista nota per molte egregie cose ma soprattutto per aver indagato, studiato e raccontato delle “donne musiciste” nella Milano del primo ottocento! Una storia, appunto, bella e curiosa.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali



Sullo stesso tema


9 aprile 2024

VIDEOCLIP: LA MUSICA COME PRODOTTO AUDIOVISIVO

Tommaso Lupi Papi Salonia






20 febbraio 2024

SANREMO 2024: IL FESTIVAL CHE PUNTA SUI GIOVANI

Tommaso Lupi Papi Salonia



20 febbraio 2024

FINALMENTE

Paolo Viola



6 febbraio 2024

QUANTA MUSICA A MILANO!

Paolo Viola



23 gennaio 2024

MITSUKO UCHIDA E BEETHOVEN

Paolo Viola


Ultimi commenti