11 febbraio 2015

PIAZZA DEL CARMINE E PIAZZA ENZO PACI: L’URBANO E IL “DISURBANO” NEI LUOGHI DI MITORAJ


Se, si fa per dire, qualcuno tra quanti amministrano o plasmano e riplasmano questa città avesse a cuore di cogliere la differenza tra ciò che è urbano e ciò che non lo è in fatto di spazi pubblici; se, per azzardata ipotesi, qualcuno fosse interessato a comprendere quanto il “disurbano” possa incidere negativamente sulla qualità della vita in questa come in tutte le metropoli contemporanee e se infine qualcuno fosse ancora propenso a rivendicare, come forma di azione civile, un diritto alla bellezza e all’ospitalità delle strade, delle piazze e dei viali che quotidianamente percorriamo (ma vorrei dire abitiamo), forse potrebbe provare a visitare le due piazze milanesi che accolgono le sculture che Igor Mitoraj – scomparso lo scorso ottobre a Parigi dopo aver vissuto e lavorato per anni in Versilia – ha lasciato in eredità (culturale) a Milano.

07riboldazzi06FBStiamo parlando di Piazza del Carmine e di Piazza Enzo Paci: la prima incastonata nel dedalo di vie che si diramano tra Brera e il Castello; la seconda nella parte più recente e meno riuscita del quartiere Sant’Ambrogio, zona Barona, dalle parti dell’ospedale San Paolo per intenderci, dove anche Google Maps fatica a orientarsi (provare per credere). Luoghi molto differenti che a loro modo esprimono contemporaneamente i tratti dell’urbano e le insidie del disurbano così come nelle opere dello scultore apprezzato da Testori l’evocazione della classicità s’incrina d’improvviso in un qualcosa che classico non è.

Piazza del Carmine – pur non raggiungendo le vette estetiche di altri mirabili luoghi urbani italiani ed europei – si avvicina molto, dal punto di vista compositivo, a quanto i miei maestri mi hanno insegnato ad apprezzare in fatto di spazi pubblici. È una scena in cui si rappresenta la vita urbana: lo si coglie benissimo arrivando da via Ponte Vetero col tram, quando questo spazio si apre a noi. Come quinte teatrali, da cui i cittadini-attori possono entrare e uscire, gli edifici ai lati di questa sorta di palcoscenico ne definiscono la prospettiva sul cui fondale troneggia la chiesa che dà il nome alla piazza. Piazza del Carmine è anche una stanza a cielo aperto, di quelle di cui apprezzi le proporzioni umane e soprattutto il respiro quando arrivi dalle strette vie laterali, buie e fredde d’inverno, fresche d’estate. Piazza del Carmine è infine una pausa, un momento di quiete sull’asse Ponte Vetero / Mercato / Garibaldi, trafficato e caotico. Insomma, se non fosse per l’ingombrante presenza di diversi dehors già denunciata su queste pagine tempo fa, in piazza del Carmine parrebbero condensarsi, almeno dal punto di vista formale, i caratteri dell’urbano.

Piazza Enzo Paci invece sembra un’entità persa nel vuoto, un’isola pavimentata nel verde del Sant’Ambrogio 2, quartiere realizzato nei primi anni settanta senza le morbide sinuosità degli edifici del fratello maggiore costruito qualche anno prima e apprezzato da Gio Ponti al punto da definire il suo progettista, Arrigo Arrighetti, «provvidenziale nella città, nel comune, nell’architettura». Piazza Enzo Paci vorrebbe essere scena della vita urbana ma non ci sono quinte, non ci sono palchi da cui guardare ed essere guardati perché le case sono piuttosto lontane, le finestre rivolte altrove e soprattutto non c’è il pubblico: la vita scorre più in là, ai margini del quartiere o addirittura più distante dove la città, dopo decenni, si scopre ancora attonita a guardare i nuovi edifici moderni sorti laggiù, oltre quei pochi prati che aspettano solo di essere inghiottiti dal cemento.

Piazza Enzo Paci vorrebbe anche essere una stanza a cielo aperto, luogo dell’abitare civile (quello fatto non solo di spazi privati) ma non ci riesce. La fila di negozi chiusi nel basso edificio porticato a esedra che ne circoscrive una parte del perimetro ci ricorda quanto possano risultare fallimentari certi innesti forzosi e un certo modo di intendere la città e i suoi luoghi pubblici. Piazza Enzo Paci, pur essendo qualcosa di prezioso per il quartiere soprattutto nei pomeriggi e nelle sere d’estate, appare così sospesa nel tempo e nello spazio, come la grande scultura di Mitoraj che ne rappresenta il fulcro, in una silenziosa attesa non priva di angoscia. Pare cioè tutto fuorché qualcosa di urbano e vitale.

Urbano e disurbano, però, non sono stabili nel tempo e le spinte verso l’una e l’altra condizione si fronteggiano in un continuo corpo a corpo. Se è evidente che la forma dei luoghi gioca un ruolo di punta in questa partita, non possiamo dimenticare che altrettanto importanti sono i modi d’uso dello spazio pubblico e di quello privato tutt’intorno. In Piazza del Carmine, per esempio, appare problematica sia “l’espansione incontrollata di ristoranti, bar, caffè, pizzerie, e di cari esercizi cha dal piano terreno delle case circostanti sono debordati sui marciapiedi e su ampie porzioni del sagrato” in misura preoccupante (J. Gardella, 2012), sia la trasformazione che la zona ha avuto nel suo insieme.

Già nel 1987 Giuseppe Ajmone, in un bellissimo scritto intitolato Ritorno a Brera, notava che il quartiere in cui si era formato e aveva vissuto si era «spersonalizzato e immiserito fino a diventare del tutto simile a uno degli angoli che offrono al consumo cose d’arte in ogni grande città. […] Immiserito – aggiunge il pittore noto per i suoi nudi femminili – perché ogni agglomerato urbano, in tutto il mondo, tende oggi a creare il suo ghetto specializzato, diabolicamente marchiato da quella internazionale noiosissima atmosfera che dovrebbe, secondo discutibile logica, catturare l’attenzione di un ipotetico visitatore disattento».

Questo per dire che lo squilibrio tra le funzioni insediate in una determinata area – in particolare, la tendenza alla monofunzione (determinata tanto dai meccanismi legati alla rendita immobiliare, quanto da scelte progettuali tipiche della pianificazione del XX secolo) e lo storico processo di espulsione della residenza (soprattutto popolare e piccolo borghese) e di alcuni tipi di attività commerciali (quelle di beni non di lusso) dalle aree più centrali a favore di funzioni più redditizie – nonché la pervasiva presenza delle automobili o l’uso privatistico dei luoghi collettivi incrinano il carattere urbano degli spazi più belli di questa città e, nei casi più sfortunati, ne sgretolano completamente l’urbanità.

Per concludere, se è vero – come sostiene Tomaso Montanari nel suo Istruzioni per l’uso del futuro (Minimum fax, 2014) – che «quando parliamo di cultura dovremmo forse invece parlare di spazi pubblici», allora il problema sta nel cercare di capire in che misura, al di là di estemporanei e tuttavia auspicabili momenti partecipativi sul destino di qualche edificio, piazza o area dismessa di questa città, sia ancora possibile una cultura dello spazio urbano condivisa capace di riconoscere i caratteri dell’urbanità come valore civile. Solo se nelle pieghe delle molte culture che abitano Milano sapremo trovare o ritrovare quel sentire comune che in Italia e in Europa ha nutrito per secoli la costruzione dello spazio pubblico, solo educandoci a uno sguardo consapevole sul ruolo dei luoghi collettivi come fatto identitario ed espressione democratica di una comunità, potremo alimentare la speranza di riuscire a contrastare una dilagante tendenza al disurbano, tanto nelle strade e nelle piazze che la nostra società produce, quanto in quelle che abbiamo ereditato dal passato prossimo e remoto.

Renzo Riboldazzi



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