4 febbraio 2015

LA CITTÀ NON È UN CAMPO DISPONIBILE ALL’ATTIMO FUGGENTE


Traendo spunto da una riflessione recente, fatta su queste colonne da Giuseppe Longhi, osservavo come in realtà la crisi degli architetti e del loro mestiere fosse duplice: sia di prestazioni, sia di ruolo. Tutto quanto attenga la competenza tecnica dell’architetto, così come la modalità del suo lavoro, riguardano una cultura diffusa (o non ancora diffusa) del sostenibile, cioè del progresso durevole: cultura della quale l’architetto deve partecipare. Tutto ciò che invece può favorire un riavvicinamento tra la “cultura dell’architetto” e quella della città, oggi in contraddizione o non coincidenti, è da interpretare o sperimentare con spirito critico.

05bono05FBMolti amici hanno però riscontrato nelle mie precedenti note una critica solo negativa, dovuta a certo pessimismo. Provo a correggermi, anche se, nella situazione data, per essere ottimisti, e per dirla con il Porta, ghe voer on bell talent. Lo faccio ovviamente come cittadino tra tanti, e non ancora con la sicurezza dell’architetto “nuovo”, individuando nell’esempio milanese sia il positivo nascosto, e ritrovabile, dentro l’occasione perduta (sino a ora), sia quanto di positivo sia già emerso dall’esperienza.

Per Expo, l’occasione fino a ora perduta, ma ritrovabile ex post, è quella del “che fare” dopo. Molti sono intervenuti con proposte, tra le quali quella stimolante e ragionevole di Ada Lucia De Cesaris; ed è anche un bene che più ipotesi restino aperte. Ciò che era chiaro (e anche dichiarato) prima, e che avrebbe potuto orientare meglio l’occasione di breve durata, era la certezza che ogni proposta per il futuro, si sarebbe comunque inserita in una logica e in una dominante (durevole) di parco. Di parco metropolitano.

Se il dibattito fosse stato più forte, e gli equivoci sull’acqua dei Navigli minore, si sarebbe orientato diversamente il progetto. Come fu per l’Esposizione del 1906 nel Parco Sempione, dove il tema di riferimento lontano non era l’acqua dei Navigli, ma il treno del nuovo traforo. Si sarebbe (faccio una ipotesi) potuto imporre a ogni padiglione il segno comune e permanente di una nuova Arena, entro cui ognuno avrebbe potuto incastonarsi, e quale origine di una presenza perenne. Invece si è scelta la suggestione del campo castramentato, dove ogni “tenda” ha la sua effimera bizzarria: e il segno forte del parco è ancora da costruire.

Insomma: la città non è ancora concepita come approdo di un mondo più vasto e necessario, ma come campo disponibile all’attimo fuggente: e anche alle mode che – come si sa – non hanno niente a che vedere con l’architettura. Nel primo caso si sarebbe potuto pensare a un maggiore accordo tra la città e la sua storia, anche quella più recente rispetto allo stesso Parco Sempione: ad esempio (ed è un esempio positivo) quella del Parco Nord. Si tratta di una storia significativa, nella quale, per la prima volta, alla metà degli anni ’70 del secolo scorso, il parco fu concepito appunto come un approdo, e non come una semplice attrezzatura della città.

Nel caso del Parco Sempione, secondo il progetto riduttivo dell’Alemagna, e con un passo indietro rispetto alla “magnificenza” teresiana dei Giardini di Porta Venezia, così bene completati del Balzaretto, si diede forma sostanzialmente al “giro delle carrozze” a uso del quartiere borghese di Via XX Settembre; e ormai tramontati gli usi del patriziato milanese nell’Antico regime, quando la domenica mattina le signore si incontravano in carrozza sui bastioni di Porta Venezia. Incontri poi disertati per le troppe “correnti d’aria” imputate a Napoleone, che aveva aperto lo Stradone nella direzione della Francia (lo racconta lo Stendhal).

Nell’originario progetto direttore, di quegli anni, per il Parco Nord, dovuto a Virgilio Vercelloni, la storia del verde milanese era addirittura incorporata nell’idea stesa di parco, e riportata per intero nella Legge regionale istitutiva, pubblicata per esteso nel Bollettino ufficiale. Tale consapevolezza storica – che poi è la capacità di distinguere caso per caso, con le dovute gerarchie di importanza – non agì più tardi nella multiforme vicenda delle aree dismesse (se non in parte per la Bicocca prima e per il Portello nord poi), per le quali ci si attenne invece allo standard uniforme, ma meno significante, sintetizzato nella regola del cinquanta per cento: parte parco e parte costruzioni.

Il Parco Nord istituì un principio di logica metropolitana, quello stesso che venne poi ripristinato, con l’efficace lavoro della Assessora De Cesaris, per il Parco Sud, agricolo e di carattere diverso, correggendo le devianze di un (proposto) Piano di governo del territorio, che si era ancora mosso nella vecchia logica della città che avanza consumando il suolo agrario.

In questo momento si vedono tanti legittimi ottimismi, attinenti l’istituzione della Città metropolitana, tra cui il recente articolo qui pubblicato in questa sede di Salvatore Crapanzano. In verità, su certa inadeguatezza del suo Statuto e sul possibile funzionamento della stessa, mi sembra di concordare con i rilievi fatti dai consiglieri Biscardini e Cappato; mentre sul piano dei contenuti credo che la strategia urbana di grande e lungo respiro dovrà essere quella della “Città mondiale” dei sette-otto milioni di abitanti: cioè la Città Lombardia. Il governo metropolitano potrà essere proprio “funzione” di tale grande visione, incentrandosi sui due grandi temi che abbisognano di una profonda rifondazione: appunto il sistema dei parchi da un lato, e la riscoperta della casa dell’uomo (come la chiamò Ernesto Rogers) dall’altro.

Cioè la costruzione o ricostruzione dei diffusi modi di abitare, che non siano soltanto l’espressione della tracimazione urbana fuori dei confini municipali, ma la realizzazione di un policentrismo identitario e riconoscibile, capace di intrecciarsi con la persistente, anche se labile, tessitura dell’antico Contado milanese, ricco si segni, di presenze: vasto deposito delle umane fatiche. Su una tale storia dell’hinterland (ecco un altro fatto positivo), abbiamo sia una tradizione virtuosa di quelle Amministrazioni comunali che negli anni ruggenti della immigrazione seppero “fare città”, sia una tradizione di studi, che sempre devono guidare il progetto, come quelli, tra gli altri, contenuti nelle annate della rivista (appunto intitolata Hinterland) che fu fondata e diretta da Guido Canella.

(Che il tema della casa, delle difficoltà, dello straniamento o emarginazione urbana sia oggi generalizzato e scottante, e non localistico, è dimostrato dalle vicende anche le più drammatiche, non solo la nostra Milano, ma anche nella Parigi capitale del Mondo, con le sue banlieue).

Insomma: nella nostra storia o tradizione, non vi sono soltanto i facili (e vagamente modaioli) “diamanti” delle Varesine, ma anche le tante pietre miliari di un possibile percorso. Non saranno le magnifiche sorti, ma la visione potrà essere comunque progressiva. Per non essere invece come l’angelo del Porta nel “giudizzi del bagaj“, pass con giò i al come on osell che cova.

 

Cristoforo Bono

 

 



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