4 febbraio 2015

DOPO “JE SUIS CHARLIE”. MILANO IN PIAZZA È BELLA, SE LA ROUTINE NON CI CATTURA


È un inizio d’anno già caldo per la città che scende in piazza: esprimendo vicinanza e solidarietà dietro alla scritta “Je suis Charlie” o protesta e dissenso, per il diritto alla casa e al lavoro, contro l’omofobia, il job act, il razzismo, le mafie…. C’è sempre una Milano che manifesta. Meno di venti, trent’anni fa – sostiene chi ha ricordi più lontani – eppure il senso delle grandi iniziative collettive non è cambiato. Forse. Rimane questo uno dei modi più immediati di partecipare, fare politica dal basso; ma nei palchi improvvisati, negli slogan, nei cartelli, nelle note di “Bella ciao”, nelle istantanee su Facebook si nasconde un rischio: la trappola dell’abitudine, e della autoreferenzialità. Ansia da flash-mob a ogni costo.

06poli05FBQuel ritrovarci sempre tra noi, “noi di sinistra” (in genere il sabato pomeriggio, nelle strade del centro) nasconde un compiacimento che persino nei momenti peggiori incoraggia, riscalda. E che cosa c’è di male in questo? Dobbiamo proprio essere autocritici su qualcosa di bello? Sì, in effetti dobbiamo. Sia una manifestazione o un grande convegno – come quello di Human Factor, poco più di una settimana fa – questi sono gli spazi, peculiari, della sinistra. Chi sta dalla parte opposta ha cercato di copiare la formula, ma proprio non sta nella cultura e nello stile del centrodestra e dei suoi elettori.

Per chi è di sinistra riunirsi in un’assemblea pubblica o manifestare significa partecipare, soprattutto “esserci”. Essere nel cuore del problema, nel mezzo della battaglia, nel flusso del divenire, animati da una forte empatia. Sempre così? È utile però, alla lunga, parlarsi tra gli stessi, in cerca di conferme? Un po’ ci si sente appagati di far parte di una minoranza, un’eletta cerchia di consiglieri, assessori, segretari di circolo, militanti; e di cittadini impegnati, naturalmente. Ci sono però tanti “altri” che di questo ambiente non fanno parte, di questo mood; magari non perché la pensano diversamente, o per una generica mancanza di interesse. È piuttosto che dell’impegno attivo non conoscono le dinamiche, lì in mezzo non stanno a proprio agio, neppure tra le bandiere familiari del partito che votano o i cartelloni “sandwich” che avrebbero potuto scrivere loro stessi.

I perché di questa rinuncia a esporsi non andrebbero liquidati in fretta. C’è una parte troppo grande della città che dalla piazza non si sente rappresentata, nei suoi bisogni e nelle sue urgenze, e questo è un grosso limite, sottovalutato. A ogni corteo, presidio, fiaccolata, convegno o flash mob le new entry sono poche. Si rilevano di volta in volta assenze eclatanti, tante presenze sicure ma pochi mutamenti sostanziali che portino questo strumento a evolvere, espandere le sue potenzialità. Ci sono pomeriggi e serate che ottengono un successo strepitoso, l’attenzione dei giornali, della tv, dei social network. I “Sentinelli” contro l’omofobia hanno avuto per esempio un’idea geniale, contrastare l’intolleranza ponendosi “in direzione ostinata e contraria”, con un messaggio rovesciato: bello, efficace, intelligente.

L’attenzione deve rimanere alta, però, perché il “demone dell’abitudine” è in agguato; meglio che gli eventi mantengano un’accezione di straordinarietà, se si trasformano in una sorta di routine le persone vengono colte da saturazione, stanchezza. Ci sono giorni che la piazza sembra più un appuntamento prefissato che un’espressione di indignazione e speranza, più uno specchio di se stessi che un mezzo per farsi ascoltare. Al “popolo di sinistra”, come lo definiscono con poco velata ironia i titolisti dei quotidiani, piace vedersi, rivedersi ed essere visto; un po’ ci si assuefa, al limite, anche a non essere ascoltati dal vero interlocutore finale, da chi ha il potere di decidere e cambiare il corso delle cose. Ci si dimentica, nell’entusiasmo del fare, che la protesta e la moltitudine che la anima sono un punto di partenza e non d’arrivo. Come diceva Paola Natalicchio, sindaco di Molfetta, nel suo intervento a Human Factor “non possiamo più permetterci di passare di convegno in convegno (e di manifestazione in manifestazione?): ne perdiamo la metà la prossima volta”. Ecco, non possiamo permettercelo.

Oggi il cartello sul petto dice “Je suis Charlie”, domani “io sono un pirla”, per fare il verso a Maroni; e poi “io sono greco”, dopo la vittoria di Tsipras. Ma la piazza è sempre territorio condiviso? Chi non ci crede continua a non crederci, e chi ci crede ci crede fin troppo. È questo il vero problema. Si manifesta troppe volte per difendere i diritti di qualcuno che nemmeno lo sa, e non è giusto che non lo sappia. Ci sono mondi in teoria simili che non comunicano e non instaurano un dialogo. Ci sono i cortei della Cgil, c’è la piazza “universale” del 25 aprile; ma più di frequente in prima fila è una classe medio – alta con esigenze e aspettative che altri non arrivano a riconoscere perché le differenze sociali sono ancora grandi, nella Milano 2015.

Tutto’altro pubblico partecipa alle assemblee di quartiere sul futuro delle case Aler, da Giambellino a Corvetto. Si parla un’altra lingua, si racconta altra storia: decine di persone, anziani e famiglie, seduti ad aspettare il rappresentante delle istituzioni che andrà lì per spiegare, informare; pronte le domande. Questi cittadini – obietterà qualcuno – non fanno però politica, stanno ad aspettare risposte. Ma la politica, dal basso o in alto che sia, non è forse cercare, guidati dalle idee, risposte e soluzioni alle questioni che altri pongono? Ci sono moltissimi cittadini milanesi che in Duomo o in Cairoli non ci vanno, mai: il gap si tocca con mano ed è stridente. È

È innegabile, esistono dei temi che per una concomitanza di circostanze fanno notizia, trascinano anche chi non è coinvolto in prima persona. Sembra facciano volare alto, lottare per un mondo migliore. Altre cause aperte e irrisolte non godono dello stesso destino: se ne riconosce l’importanza, e tuttavia rimangono ostiche, spinose, frenate da mancanza di risorse economiche; richiedono un impegno maggiore anche solo per decidere da quale parte stare ed esigono un risvolto pratico immediato. Paradossalmente diviene più facile fare ascoltare la propria voce contro l’omofobia e favore dei matrimoni gay, sul testamento biologico o contro il razzismo che non sull’assegnazione delle case, la disoccupazione over 40 o la riqualificazione delle periferie. E se in alcuni casi la possibile via d’uscita segue una linea retta, in altri è invece un groviglio di tentativi che cadono nel vuoto. Condannare il terrorismo, chi non sarebbe d’accordo? Mentre far uscire allo scoperto un problema dal quartiere in cui è confinato e farlo arrivare a tutti, questa sembra un’impresa titanica. Più difficile in certe situazioni essere autoreferenziali, e tanto più inutile.

Ancora non è cambiato abbastanza, a Milano come ovunque. Non ci sono solo le periferie, ci sono anche le manifestazioni periferiche. L’impressione è che non si riescano a recepire abbastanza le singole storie, quelle vicine ancora meno di quelle lontane, e che impegnarsi per i diritti possa finire per diventare un’astrazione. Non da tutta la realtà, ma da certe realtà.

Qualche settimana fa ero davanti al consolato francese, domenica pomeriggio: tutti lì per ricordare, lasciare una frase, un bel momento. Incontro tra gli altri un’ex collega che a queste iniziative non c’è mai. “Bello, vero?”, le chiedo. E lei, perplessa: “Sì … un po’ fighetta, però, questa cosa …”. La guardo con una certa indignazione e la saluto in fretta per evitare di avviare una discussione impervia. Ma mentre mi allontano, con la soddisfazione di essere stata lì, ecco che un po’ ci ripenso. Non faremo un passo avanti se continueremo a parlarci tra noi, se non prenderemo in considerazione critiche e impressioni esterne. “Un po’ fighetta, dici? Ci rifletteremo …”.

 

Eleonora Poli



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