4 febbraio 2015

musica – DIE SOLDATEN ALLA PROVA DEL PUBBLICO


 

DIE SOLDATEN, PARTE SECONDA

Nell’annunciare l’opera di Zimmermann alla Scala, la settimana scorsa, ho affermato che essa fa parte di quegli spettacoli compravenduti da Pereira appena indicato Sovrintendente a Milano ma ancora in carica a Salisburgo. Ci ha fatto gentilmente notare Cristina Jucker (“solo per amor di precisione“) che invece Die Soldaten

“è stata coprodotta dalla Scala con Salisburgo su decisione di Lissner e poi da lui portata alla Scala”. La ringrazio molto della doverosissima precisazione e mi scuso con i lettori per l’informazione sbagliata e fuorviante.

musica05FBVeniamo all’Opera, che ha suscitato molto interesse nelle sue sei recite (in due settimane l’hanno vista circa dodicimila persone!) ma in modo sorprendente perché, a quanto si è capito dai tanti commenti, il pubblico ha molto apprezzato molto più la scenografia e la regìa e molto meno – per non dire pochissimo – la musica. Si sa che la musica cosiddetta “colta” del novecento (quest’opera, come ho ricordato, è del 1965) è spesso ostica, si rivolge in modo quasi esclusivo a un pubblico sofisticato di intellettuali (o addirittura di snob!), non è entrata nel cuore degli ascoltatori ed è – soprattutto l’opera lirica – ancora lontana dall’aver conquistato la benché minima popolarità.

Ma avrei immaginato che questa di Zimmermann, nata con gli stessi presupposti ideologici, poetici, musicali del Wozzeck (andato in scena nel 1925) e della Lulù (terminata nel 1935) di Alban Berg, avrebbe costituito come quelle una eccezione nel panorama musicale del secolo scorso, e colpito positivamente lo spettatore di questo secolo, ormai assuefatto al linguaggio seriale o dodecafonico. La sensazione che si è avuta in sala, invece, è che la musica sia stata mal recepita e che il fascino della regìa “tedesca” – ancorché ideata da un lettone in terra austriaca – sia piaciuta assai di più.

Cominciamo allora proprio dalla musica. Già quell’attacco con l’assordante, lunghissimo accordo costituito da un infinito numero di note e di timbri che si spengono poco a poco, con il quale Zimmermann annuncia la morte del mito borghese di un mondo “giusto” (“… e dovrebbero tremare coloro che subiscono l’ingiustizia, mentre gli unici a godere sarebbero quelli che commettono l’ingiustizia …“) descrive fin da subito il pathos che dominerà l’intera opera e sembra anticiparne i temi e i possibili sviluppi; meravigliosamente qui, come in Berg, non è il linguaggio a prevaricare e a dettar legge, ma è la musica che si serve del linguaggio per descrivere sentimenti e atmosfere.

Come Wagner usava i leitmotive e Bach costruiva mastodontiche fughe su un semplice soggetto e controsoggetto, in Die Soldaten la “serie” viene usata per dare compattezza e per rendere monolitico l’impianto musicale (Bach, Mozart, Mendelsshon, Wagner si sentono ovunque, in filigrana, nel tessuto armonico e contrappuntistico dell’opera) mentre il vezzo con cui Zimmermann, nel libretto, antepone a ogni scena il titolo della “forma” musicale adottata nella scrittura (Toccata, Ricercare, Ciaccona, Notturno, Couplet, Refrain, ecc.) testimonia la classicità e la limpidezza compositiva dell’opera. Si esce da due ore di musica con la sensazione di essere stati in un luogo – tragico, cinico, disperato – in cui tutto torna, si lega, sta insieme per farci capire come purtroppo anche l’inferno sia uno dei mondi possibili.

Ed eccoci alla accuratissima regìa del lettone Alvis Hermanis, alla grandiosa scena della tedesca Uta Gruber-Ballehr e ai dimessi costumi di Eva Dessecker (tedesca anche lei), ai quali non si può negare considerevole fascino e forte coerenza, tanto da risultare a loro modo molto convincenti. Ma se si legge il libretto dell’opera – e non ci si limita al testo riprodotto dai display posti sulle poltrone del teatro – si capisce quanta esso sia stato tradito in questa edizione: i soldati non sono soldati ma poveri diavoli, male in arnese, che passano il tempo oziando in un ambiente più simile a un ospedale o al dopolavoro di una fabbrica anziché a una caserma (ma ci sono i cavalli e la scritta Felsenreitschule che allude al seicentesco maneggio – ora sede del Festival salisburghese – a farci credere di essere alle prese con un reggimento di cavalleria); la mancanza di unità di tempo, di luogo e di azione viene interpretata come integrazione, nella stessa scena, di più tempi, più luoghi e più azioni, quanto basta per complicare la comprensione della trama; una quantità inverosimile di accadimenti sulla scena, in massima parte non richiesti dall’autore, distraggono l’ascoltatore dalla musica impegnandolo a cercar di comprendere cosa vi succede. E così di seguito fino ai timidi accenni a improbabili trasgressioni erotiche (una masturbazione collettiva, il rotolarsi nella paglia per alludere ad amplessi, un lugubre aborto volontario della protagonista, ecc.) di cui non esistono traccia o allusione nel testo: e dire che Zimmermann, nella descrizione con la quale introduce la scena del secondo atto, scrive addirittura che “la disposizione proposta dall’autore dovrebbe essere mantenuta con la maggiore fedeltà possibile“!

Se oggi è da considerare più che acquisito il diritto dei registi ad “attualizzare” il racconto o trasportarlo in un’epoca o ambiente diversi, per dimostrarne l’universalità e la freschezza, non se ne può più, invece, della cattiva abitudine di reinventare la trama, di raccontare una storia diversa da quella scritta dall’autore, specialmente quando si tratta di un’opera poco nota che l’ascoltatore vorrebbe conoscere nella sua originalità, così come fu pensata.

Bravi tutti i cantanti, dalle voci molto articolate richieste dall’autore: un “soprano drammatico di coloratura”, un “contralto drammatico”, un “baritono acuto” e “un tenore molto acuto” (ma c’è anche un “tenore lirico molto acuto”), due “baritoni eroici” e così via per un totale di 18 cantanti, 4 ballerini e 25 attori in parti solo recitate. Scrive Enzo Beacco nella sua Offerta Musicale che nei Soldaten “è l’architettura musicale che determina l’aspetto visivo e il flusso narrativo” ed è anche per questo che chi l’ha vista non è riuscito a sottrarsi al fascino di un’opera tanto complessa e a una musica tanto suggestiva.

Straordinaria ed esemplare infine la prestazione di Ingo Metzmacher, direttore d’orchestra non ancora cinquantenne di Hannover, specialista di musica contemporanea (portò a Salisburgo “Al gran sole carico di amore” di Luigi Nono) e autore del noto volume “Keine Angst vor neuen Tönen” (Niente paura per i nuovi suoni), che ha condotto l’orchestra della Scala in un opera tanto impervia con una sicurezza e una precisione assolutamente prodigiose; e – lo dico con immenso piacere – credo che l’orchestra gli abbia dato grande soddisfazione senza fargli rimpiangere i mitici Wienerphilharmoniker che tre anni fa lo avevano seguito a Salisburgo.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali



Sullo stesso tema





20 febbraio 2024

SANREMO 2024: IL FESTIVAL CHE PUNTA SUI GIOVANI

Tommaso Lupi Papi Salonia



20 febbraio 2024

FINALMENTE

Paolo Viola



6 febbraio 2024

QUANTA MUSICA A MILANO!

Paolo Viola



23 gennaio 2024

MITSUKO UCHIDA E BEETHOVEN

Paolo Viola



9 gennaio 2024

L’ORATORIO DI NATALE 2023-2024

Paolo Viola


Ultimi commenti