21 gennaio 2015

SE AL POSTO DI PARIGI CI FOSSE STATA MILANO?


La strage perpetrata alla redazione di Charlie Hebdo, a Parigi, ha smosso in ognuno di noi una moltitudine di pensieri, riflessioni, preoccupazioni. Superata l’onda emotiva, a una domanda può essere interessante rispondere: è se fosse capitato a Milano? Se gli attentatori fossero stati dei cittadini italiani di seconda generazione che, incappucciati e ben armati, avessero fatto fuoco in una redazione di giornale? Quale reazione avrebbe messo in campo la città e il paese?

02telesca03FBNon è un esercizio di fantasia fine a se stesso, riconoscendo le somiglianze tra la capitale francese e il capoluogo lombardo. Milano ha sempre aspirato a divenire una metropoli europea, porta verso il centro e il nord europea, ammantata di una grandeur e di un orgoglio propriamente meneghino. E certamente la vicinanza tra le due città l’ha dettata anche la storia, con le opere napoleoniche di inizio XIX secolo ancor oggi visibili nell’architettura e nell’urbanistica milanese.

Milano, come Parigi, è sede di numerose testate e case editrici. Riviste, quotidiani e pubblicazioni spesso denotate da spiccate caratterizzazioni politiche, religiose e filosofiche; che già in passato hanno fatto discutere per le loro posizioni in materia di multiculturalismo e “scontro di civiltà”, spaccando l’opinione pubblica. Se un commando avesse fatto irruzione in una di queste redazioni, decimandone i componenti, la cittadinanza milanese avrebbe risposto come quella parigina? O le scorie di lunghi anni di acceso confronto politico e ideologico avrebbero mostrato le loro conseguenze?

In tutta onestà, nello stato attuale in cui versa la nostra democrazia, attirata dalle sirene populiste e contagiata da un diffuso e nemmeno troppo celato razzismo, temo che la risposta non sarebbe né compatta né razionale. Richiamo alla memoria quanto avvenne dopo un episodio meno drammatico, ossia l’oramai famoso lancio della statuetta contro l’allora premier Silvio Berlusconi: la parte politica che aveva visto offeso il proprio leader lanciò strali nei confronti degli avversari, rei (a loro dire) di aver incitato una campagna d’odio verso il Cavaliere. Si forzò la mano nel dividere l’agone politico tra buoni e cattivi, chiedendo a tutti di dissociarsi da quel folle gesto.

Già immagino, allora, gli slogan rabbiosi delle destre, pronti a chiudere tutte le frontiere, chiedendo leggi restrittive delle libertà personali. Immediate fioccherebbero le mozioni di sfiducia verso gli amministratori locali e nazionali, rei di aver permesso il proliferare di centri di preghiera e di cultura islamica. Non si riuscirebbe, probabilmente, a organizzare una manifestazione di piazza unica che, come a Parigi, raccolga milioni di cittadini senza bandiere di partito. In ogni occasione pubblica si chiederebbe a questo o a quel fedele musulmano di dissociarsi in maniera espressa, chiedendo vicinanza all’islam moderato (a sottintendere che i seguaci di Allah sono, per natura e convinzioni religiosi, dediti al terrorismo). Gli appuntamenti elettorali successivi si incardinerebbero sull’episodio, permettendo ai leader che mirano alla pancia degli elettori di fare incetta di voti. E allora gli attentatori sì che avrebbero raggiunto il loro obiettivo: diffondere la paura a un livello tale da sovvertire le nostre esistenze, viatico perché il famigerato scontro di civiltà passi dalle parole ad i fatti.

È una visione oscura, la più pessimistica, che però si fonda su dati di realtà. Dopo gli attentati dello scorso 7 gennaio abbiamo sentito politici dichiarare che siamo in guerra, e che ciò rende necessario controlli a tappeto su tutti gli islamici. In vista di Expo è stato chiesto di sospendere l’area Schenghen, così da rendere più sicure le nostre frontiere. Come avvoltoi sono partiti all’attacco del progetto della Giunta Pisapia di bandire spazi per nuovi luoghi di culto in città, col timore che nuove moschee vadano di pari passo con un aumento esponenziale di rischio terroristico (che poi, quel bando, è destinato a numerose confessioni religiose, non solo a quella islamica). I commenti sono stati spesso beceri e raffazzonati, privi della necessaria dose di conoscenza: quel terrore che gli attentatori vogliono diffondere e utilizzato già da ora come strumento elettorale.

Fare proprio lo slogan “Je suis Charlie” vuol dire avere a cuore la libertà d’espressione, il multiculturalismo, la democrazia; una visione in cui si abbandonino fondamentalismi ed estremismi religiosi, ma anche filosofici e politici. In questi giorni è stato sbandierato da personaggi che, fino all’Epifania, facevano propria una differente retorica. Come ha ricordato Roberto Saviano è solo con i fatti più tragici e di sangue che apriamo gli occhi e le coscienze, garantendoci nuove garanzie da parte dei governanti per quei diritti messi in pericolo dal terrorismo organizzato.

L’augurio è che a Milano, e in Italia, ciò avvenga ben prima e senza dover patire le sofferenze del popolo francese, guidati da un programma politico e culturale aperto a tutte le realtà presenti sul nostro territorio, capace d’essere empatico rispetto alle sofferenze d’ogni parte del mondo. Solo allora la nostra società sarà munita di sufficienti anticorpi per rispondere ad attacchi e violenze cieche.

 

Emanuele Telesca



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