14 gennaio 2015

LA SOLUZIONE PER IL DOPO EXPO: L’URBANISTICA DELLA VITALITÀ


Parafrasando quello che Manzoni fa dire a Don Abbondio potremmo noi dire che se non le si ha “le idee uno non se le può dare”. Se la politica non ha idee sul destino delle aree del dopo Expo non può farsele dare da un comitato di saggi come pensa il Comune. Lascia sempre la bocca amara quest’abdicazione al proprio ruolo che impensierisce sul futuro. C’è una sola giustificazione: lo sconcerto di fronte alla necessità di chiudere un’operazione fallimentare iniziata e portata avanti da altri che involontariamente, ma per loro fortuna, sono usciti di scena passando ad altri il cerino acceso, chi bocciato dalle urne, chi cacciato dalla magistratura. Vale comunque la pena di ripercorrere le tappe essenziali della vicenda.

01editoriale02FBNel 2008 per partecipare alla gara per l’assegnazione di Expo 2015 bisognava indicare su che aree s’intendesse localizzare la manifestazione. Negli altri Paesi che ci hanno preceduto in questo genere di vicende, si sono indicate aree già di proprietà pubblica. Noi no. Ci siamo orientati verso aree private e, prima di avere concluso una qualsivoglia trattativa per l’acquisto fissando un prezzo, le indichiamo come collocazione della manifestazione: si imbocca così una strada capestro che dà ai venditori un inusitato potere contrattuale. Il traino è Fiera Milano che deve vendere le aree di suo possesso in origine destinate a parcheggi, acquistate per 15 milioni e che con questo scherzetto è in grado di venderle per 65. Gode la famiglia Cabassi che vende anche le sue e le vende bene perché nel frattempo una manina provvidenziale ne ha cambiato la destinazione d’uso da agricola a edificabile, tanto che l’Agenzia del Territorio, richiesta di una valutazione, la fa passare da 10 euro al metro quadro a 163. I grandi manovratori sono Letizia Moratti e Roberto Formigoni, sindaco e governatore. Fiera Milano e pure CL si rallegrano, chi per aver venduto, chi (CL), covando aspettative sulle aree per il dopo Expo, per rifarsi dall’aver perso il boccone di Cascina Merlata, altra gloriosa vicenda.

Arriviamo agli ultimi passi. Arexpo SPA, una società posseduta per il 34,67% dal Comune di Milano, da Regione Lombardia per un’identica quota, per il 27,66% da Fondazione Fiera Milano, il resto da Provincia e Comune di Rho, compra per 315 milioni queste benedette aree, indebitandosi con le banche per 160 milioni.

Il dopo Expo diventa una patata bollente, perché il tempo vola e al 30 giugno 2016, quando scadrà il diritto d’uso a suo tempo concesso da Arexpo a Expo 2015, le banche rivorranno indietro i loro soldi. Bisogna vendere e subito le aree, ancorché a termine. Ed ecco il bando che ne fissa un prezzo (315 milioni fissati dalla Agenzia del Territorio) e i termini per presentare le offerte: il 30 novembre dello scorso anno. Le offerte saranno valutate con una procedura del tipo “lo do a chi voglio io”. Malgrado l’ottimismo del giorno della conferenza stampa di presentazione dell’operazione, nessuno fa offerta. Condizioni troppo onerose in un momento di mercato inesistente. Bastava guardarsi intorno per capire come sarebbe finita.

Chiusi nell’angolo ecco l’idea: dobbiamo sentire i saggi. Ma con che obbiettivo? Vendere in blocco o frazionare senza andar per il sottile pur di rivedere i propri soldi e quelli delle banche? Se così fosse non val la pena di spendere una sola parola in più: auguri!

Se invece non è così, se di là delle belle parole si pensa davvero un po’ più al futuro, magari anche alla città metropolitana, vale la pena di porsi delle domande, cominciando da quelle di natura strettamente economica. Il futuro utilizzo, oltre al Padiglione Italia, riuscirà a tener conto dei 168 milioni spesi per la Piastra ai quali si aggiungeranno i 40 milioni di ulteriori costi reclamati dalle imprese oggi inquisite? Che cosa varrà la pena di cercare di utilizzare e in che ottica? Saranno esaminate le 15 proposte pervenute a seguito del bando del giugno scorso col quale Expo aveva sollecitato progetti e idee per risolvere il problema delle aree? In alcune di esse c’era certo del buono.

Detto questo continuo a ritenere che il destino delle aree debba essere una decisione politica pur nel quadro della compatibilità economica, dando dunque all’urbanistica il senso pieno e attuale come quell’insieme di discipline che non si limita a oscillare tra norme e regolamenti da un lato e astratte attenzioni alla forma urbis dall’altro. Il successo delle trasformazioni urbane si identifica nella vitalità del costruito e della sua a continua adattabilità ai mutamenti sociali ed economici.

La creazione della vitalità urbana comporta anche un’attenta regia della composizione e scomposizione delle reciprocità. In parole povere non c’è trasformazione urbana che non comporti gestione continua delle funzioni d’uso dello spazio pubblico come interfaccia dello spazio privato. Ogni funzione richiede un ambiente circostante che stimoli e favorisca le sinergie e dunque la composizione accurata delle contiguità.

Nel caso delle aree di Expo e del loro futuro, considerato che una o due sole funzioni non saranno in grado di garantire vitalità all’insieme, la scelta nel ventaglio delle opportunità dovrà essere fatta incrociando le praticabili sinergie ignorando improponibili proposte di parte, il consueto assalto alla diligenza pubblica. Fare un piano, un disegno, dare regole, trovare un assetto proprietario sono solo le prime tappe di un percorso che dovrà essere guidato e assistito: un’attività di lungo respiro che travalica la funzione dell’urbanistica tradizionale e dei suoi strumenti. Almeno un quinquennio e forse più: un lavoro al quale non può sottrarsi la pubblica amministrazione e dunque la politica. Stiamo parlando della vitalità dell’urbanistica, di una nuova urbanistica.

Luca Beltrami Gadola



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti