14 gennaio 2015

sipario – LA DONNA CHE LEGGE – IL CONFLITTO TRA I SESSI NEL TEATRO DI GABRIELLI


INTERVISTA A RENATO GABRIELLI

Come è nato e di cosa parla il testo “La donna che legge“, in scena al Teatro Out Off dal 14 gennaio all’8 febbraio. L’ho scritto circa tre anni fa. Mi sono inventato una strana storia ambientata in una città italiana di provincia, sul mare. Un ricco signore di mezz’età, poeta fallito, si invaghisce di una ragazza che ha visto assorbita nella lettura di un grosso volume, sulla spiaggia. Vuole di nuovo contemplarla mentre legge, e per questo la fa contattare da una donna avvocato, sua ex amante, offrendole dei soldi. Si avvia così una perversa relazione a distanza che assume tratti via via sempre più paradossali e inquietanti.

sipario02FBDal punto di vista tematico, oltre alla questione dello sguardo maschile sulla figura della donna lettrice – riguardo alla quale ho tratto spunto da un saggio di critica letteraria di Francesca Serra, Le brave ragazze non leggono romanzi (Bollati Boringhieri) – mi interessava esplorare la conflittualità tra sessi e generazioni nell’Italia dei nostri giorni. Nel copione si richiede agli attori di entrare e uscire dai propri personaggi, alternando i punti di vista nella narrazione. È un meccanismo molto delicato; e anche per questo sono molto felice che il testo sia nelle mani di un regista intelligente e sensibile alla nuova drammaturgia come Lorenzo Loris e di tre interpreti del calibro di Alessia Giangiuliani, Cinzia Spanò e Massimiliano Speziani.

In cosa è diverso questo testo dai tuoi precedenti? Come è cambiato negli anni, dal tuo debutto a fine anni ’80 a oggi, il tuo rapporto con la scrittura? Ci sono degli elementi di continuità: per esempio, l’avversione al naturalismo. Sono sempre stato affascinato (anche e soprattutto come spettatore) dal teatro capace di creare una dimensione autonoma, che attinge alla “realtà” esterna senza la pretesa di riprodurla, o rappresentarla. Nel corso degli anni è però diminuita la mia propensione per l’assurdo esplicito, il grottesco, la satira. Credo di aver appreso a utilizzare convenzioni realistiche, per sovvertirle dall’interno, in maniera un po’ più sottile.

Da anni insegni drammaturgia alla Paolo Grassi, l’insegnamento ha cambiato il tuo modo di scrivere? Penso di sì. Appartengo alla categoria d’insegnanti di scrittura che non fanno riferimento direttamente al proprio lavoro autorale, ma guidano gli allievi nello studio di altri drammaturghi (soprattutto contemporanei). Questa metodologia mi ha portato a guardare con più oggettività anche a poetiche con cui non sento un’affinità immediata. In tal modo, spero che la mia gamma espressiva come autore si sia un po’ ampliata.

Lavori sia come Dramaturg che come “autore puro”, qual è la differenza fra i due approcci? In realtà non sono mai stato un autore “purissimo”. Amo seguire le prove dei miei testi e se necessario intervenire, tagliare, rimaneggiare. Faccio così fin dai miei primi lavori alla fine degli ’80, con il regista Mauricio Paroni de Castro al CRT. Se ci sono le condizioni, mi piace costruire testi su improvvisazioni d’attore, come è successo nel recente Questi amati orrori con Massimiliano Speziani e lo scenografo Luigi Mattiazzi. Da Dramaturg bisogna mettersi al servizio di quello che nasce e si sviluppa sulla scena, che talvolta non prevede la scrittura di un testo vero e proprio. L’identità d’autore va messa tra parentesi. Ho trovato molto bello e interessante costruire, con il Teatro delle Moire o con la compagnia Estia, drammaturgie totalmente “mute”.

Com’è secondo te la situazione teatrale milanese? E quella italiana? Malgrado la crisi, a Milano si produce e ospita ancora parecchio buon teatro, di generi diversi. Mi pare che restino forti e competitive le tre “corazzate” teatrali che possono offrire al pubblico una programmazione su più sale: Piccolo, Elfo e Franco Parenti. Più difficile la sopravvivenza per gli spazi di piccola e media dimensione. A quanto sembra, il nuovo decreto ministeriale sui finanziamenti pubblici favorirà ulteriormente l’accentramento. Per quel che vale la mia opinione (cioè nulla), non sono d’accordo. A livello nazionale ciò che più preoccupa, da anni, è il dilagare del lavoro gratuito o sottopagato. Dato il contesto economico e politico, è sorprendente la quantità di buoni spettacoli che si riescono comunque a proporre.

Come vorresti che fosse il teatro italiano fra 20 anni? Più aperto e connesso di oggi al resto del teatro europeo, con fitti scambi di testi e spettacoli e con frequenti co-produzioni. Il più possibile autonomo nel suo rapporto con il pubblico, svincolato dal traino del divismo cine-televisivo. Finanziato dagli enti pubblici soprattutto per quanto riguarda la formazione e il welfare dei lavoratori dello spettacolo, senza privilegiare alcune imprese teatrali rispetto ad altre.

Emanuele Aldrovandi

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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