14 gennaio 2015

libri – ’14 | L’ULTIMO ROMANZO DI JEAN ECHENOZ


JEAN ECHENOZ

’14

Adelphi , settembre 2014

pp.110, euro 14

libri02FBNella sterminata produzione di ricerche storiche, opere memorialistiche o di narrativa, carteggi, epistolari, fumetti dedicati alla Grande Guerra in questo anno centenario, il brevissimo (110 pagine) romanzo del francese Echenoz merita un’attenzione tutta particolare per i lampi di icasticità che proietta nella banalità dell’orrore quotidiano della vita di trincea.

L’autore, dopo le fortunate biografie dedicate a Maurice Ravel, Emile Zàtopek e Nikola Tesla è tornato con “ ’14 ” al romanzo, costruendolo come una serie di istantanee scattate nel mare di sensazioni che nessun essere umano aveva mai provato prima dell’inferno di quella guerra. Un’istantanea, ovviamente, esige un occhio che guarda, in questo caso l’occhio del protagonista Anthime, che percepisce sgomento una serie di eventi di cui avverte l’accadere ma senza comprenderne il perché.

Echenoz delinea, così, l’infantile entusiasmo iniziale di tutti, ma proprio di tutti, per una guerra che sarebbe durata poche settimane (???): “si concluderà molto prima di Natale ….”, dicevano i coscritti sulla tradotta che li portava al fronte; le agghiaccianti sensazioni olfattive che incombono sulle trincee, senza che nemmeno gli spostamenti d’aria dei bombardamenti possano diradarle; lo scurirsi del metallo delle baionette, reso opaco dai gas, che nessuno avvertiva; il lavoro silenzioso dei genieri francesi, che fissano i fili del telefono “per mettere in contatto comandi e trincee, utilizzando come supporto gli arti irrigiditi dei compagni caduti.

E tutto senza che il protagonista e i suoi camerati capiscano alcunché dell’ignoto in cui si sono immersi, così come pure delle cause, dei motivi, degli sviluppi, delle strategie, delle tattiche di quell’evento tenebroso e indecifrabile di cui sono attori e vittime.

Già, vittime innanzitutto, vittime di classi dirigenti che – ma questo Echenoz non lo dice e lo lascia capire al lettore riflessivo – mandano i loro uomini sul campo di battaglia con l’uniforme dai pantaloni rossi, come a Solferino 50 anni prima, ben visibili a mitraglieri tedeschi e con il kepi al posto dell’elmetto, che una volta introdotto, ricorda il romanzo, essendo un aggeggio di cui non era stato specificato l’utilizzo, veniva adibito a fini culinari. Ma anche l’elmetto, come il kepi, doveva essere azzurro lucido e, riflettendo i raggi del sole, trasformava chi l’aveva indossato in un allettante bersaglio. E i fanti delle trincee si vedevano costretti, ben inteso di loro iniziativa, a cospargerlo di fango.

Un evento tragico, la perdita del braccio destro, strappa – paradossalmente per sua fortuna- il protagonista dall’orrore delle trincee e lo trascina nelle esperienze di un invalido di guerra. Echenoz così trasferisce la sua penna tagliente nel mondo dell’assistenza ai reduci feriti, regalandoci pagine tanto amare quanto esilaranti sulle attenzioni che la Rèpublique riserva ai suoi figli menomati dalla guerra.

Memorabile è il passo dedicato al rapporto tra Anthime e il suo braccio mancante, e al riaffiorare, nei mesi successivi all’amputazione, della presenza dell’arto perduto nella organizzazione complessiva del corpo. Come non meno pervasa di umorismo nero è la descrizione del pistolotto che il medico militare dedica all’evento di cui è stato vittima l’ormai ex fantaccino.

Un apologo surreale che va dagli aneddoti storici sull’ammiraglio Nelson, che vedeva nella sua mutilazione la prova dell’esistenza dell’anima, a battute di bassa lega (“è all’anulare della mano sinistra che si infila la fede, la quale ha bisogno della mano destra per essere tolta: qui sta il problema per il monco infedele”) e a paragoni agghiaccianti (“certi a cui era stato amputato il pene, hanno confessato di avere erezioni e eiaculazioni fantasma”).

Paolo Bonaccorsi

 

questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero

rubriche@arcipelagomilano.org



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