14 gennaio 2015

musica – IL “MISTERO” DI NINO ROTA


IL “MISTERO” DI NINO ROTA

Noi italiani siamo dei veri masochisti. Siamo capaci di ignorare per anni le più belle opere dei nostri artisti e sbandierare ai quattro venti opere molto più insignificanti. La cosa è evidente e plateale – a mio modesto modo di vedere – se si mettono a confronto due autori che hanno percorso il secolo scorso stando ai due poli opposti della concezione della musica “colta”: da una parte Luigi Nono (1924 – 1990) e dall’altra Nino Rota (1911 – 1979), veneziano il primo, milanese il secondo, entrambi giunti ai vertici della celebrità e del successo, ancorché in due diversi mondi (ma sempre al top, come direbbe il Briatore di Crozza!), e tutti e due personaggi di grandissima cultura e con una copiosa produzione musicale. Mentre le musiche del primo sono state in cartellone per mezzo secolo e lo abbiamo esportato in mezzo mondo – auspice, lo dico con dolore, soprattutto il grande Claudio Abbado che gli fu fedelissimo amico – del secondo il grande pubblico ha conosciuto a stento le colonne sonore dei film di Federico Fellini e di Luchino Visconti e non ha mai o quasi mai sentito alcunché in sala da concerto.

musica02FBGrande merito della Verdi dunque, in questo inizio di anno, è l’avere riesumato un immenso capolavoro di Nino Rota, del 1962 (cioè proprio di quegli anni in cui la cosiddetta avanguardia allontanava la gente dalla musica contemporanea) e di averlo eseguito in modo eccelso all’Auditorium: la sconosciuta – o assai poco conosciuta – Cantata sacra per soli, coro, coro di voci bianche e orchestra titolata “Mysterium”, su un collage di testi religiosi messi insieme da Vincenzo Verginelli (detto Vinci su suggerimento, pare, di D’Annunzio in occasione della bravata di Fiume!).

L’opera, che dura solo settanta minuti ma ha una profondità di pensiero e una potenza espressiva che le permettono di riempire totalmente lo spazio di un intero concerto, è stata concertata e diretta con grande cura dal maestro Giuseppe Grazioli, specialista della musica di Rota di cui sta registrando l’opera omnia, affiancato dalle direttrici dei due cori, Erina Gambarini e Maria Teresa Tramontin; ma va segnalata in particolare la straordinaria prestazione del basso Gianluca Baratto che – fors’anche grazie alla partitura che premia indubbiamente la sua parte – sovrastava di gran lunga le voci della soprano Elena Xanthoudakis, della mezzosoprano Giuseppina Bridelli e del tenore Alessandro Liberatore.

Mysterium, che originariamente doveva essere intitolato Mysterium catholicum (così ha spiegato Grazioli nel dedicare la serata alle vittime del terrorismo di questi giorni e nel ricordare che l’Autore ne ha modificato il titolo per dare un significato universale alla religiosità del testo), era stato commissionato a Rota dalla Pro Civitate Christiana di Assisi. Lascia perplessi quel testo, costruito mettendo insieme versetti presi qua e là dai Vangeli di Giovanni e di Matteo e da altre Scritture cristiane per formare una sorta di Cantico senza radici e senza storia, privo di qualsiasi tradizione liturgica. Ma se pensiamo alle grandi opere della musica sacra – dalle Passioni di Bach al Messia di Händel, dal Requiem di Mozart alla Missa Solemnis di Beethoven, dal Requiem di Verdi alla Sinfonia dei Salmi di Stravinskij fino al War Requiem di Britten (scritto nello stesso anno del Mysterium!) – ci rendiamo conto di quanto poco peso abbia la qualità dei testi rispetto alla capacità espressiva propria della musica. La musica ha lo straordinario potere di rendere credibile l’incredibile!

L’aspetto più intrigante di quest’opera consiste nel linguaggio utilizzato da Rota, quello stesso che ci ha accompagnato per anni al cinematografo (e che per questo abbiamo ritenuto essere una sorta di linguaggio minore), che improvvisamente ritroviamo in una delle più alte espressioni musicali, votata alla elevazione spirituale e alla contemplazione del sacro. Nino Rota ci ricorda ancora una volta che la musica non si è infilata tutta nel vicolo cieco di quella “avanguardia” che dagli anni cinquanta in poi con la Scuola di Darmstadt (l’Internationale Ferienkurse für Neue Musik o il Corso estivo internazionale per la nuova musica) ha arrecato un danno incommensurabile alla storia della musica, allontanando il pubblico da tutto ciò che ha sapore di contemporaneo; ci ricorda, dicevo, che negli stessi anni molti compositori non sono cascati in quella trappola e hanno continuato a esprimersi in un linguaggio a tutti comprensibile, capace di rinnovarsi – come sempre è accaduto, in tutte le epoche e in tutte le arti – senza provocare irreversibili crisi di rigetto.

Sembra che il problema della innovazione del linguaggio musicale all’inizio del novecento sia improvvisamente esploso, con Schönberg (lui sì grandissimo musicista), come una imprescindibile necessità della nuova musica, tanto che gran parte dei compositori comparsi dopo la Scuola di Vienna si sono persi nella ricerca sul linguaggio trascurando la sostanza della poetica musicale che, ovviamente, va molto oltre quel problema e tocca le corde più intime dell’animo umano; altrimenti non si potrebbe parlare di musica.

La modernità del linguaggio di Rota è invece contenuta nel magico modo di usare dissonanze e modulazioni, continuamente sorprendenti, persino stranianti, ma pur sempre accattivanti e soprattutto orientate a farci entrare nella logica del racconto musicale piuttosto che a tenercene fuori con la perversa volontà di esibire diversità e innovazione. La musica è l’arte che più di ogni altra nel novecento ha provato a rinnegare totalmente la propria origine e la propria storia, quasi se ne vergognasse, con una cesura completa, senza misericordia; senza rendersi conto che così facendo tagliava i ponti anche con il suo pubblico. La musica che chiamiamo “classica” è sempre stata musica “contemporanea”, ha avuto rapporti di odio e amore con il suo pubblico, ma è stata sempre capita e, quale più quale meno, accettata come musica del proprio tempo; l’opera di Rota può darsi che non piaccia a tutti (io l’ho trovata meravigliosa) ma non si può minimamente immaginarne qualsivoglia forma di rigetto da parte del pubblico, né può esserne negata la modernità o – ricordando che ha ormai mezzo secolo – la contemporaneità.

Da questo punto di vista vorrei dire che possiamo considerare Nino Rota come un vero eroe della resistenza alle lusinghe di Darmstadt e alfiere di una musicalità genuina, friendly, tanto profondamente radicata nella storia quanto proiettata nella contemporaneità, senza il complesso di dover apparire e neppure quello di voler piacere, tesa solo a capire e farsi capire.

 

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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