28 settembre 2009

L’AQUILA: UNA DIFFICILE RICOSTRUZIONE


E’ passato quasi mezzo anno dal giorno terribile del terremoto che ha sconvolto l’Aquila.

Si possono già fare alcune considerazioni. Anzitutto un ringraziamento al contributo generoso, spesso non abbastanza apprezzato, dato dalla popolazione del luogo e di altre regioni italiane.

Il giornalista Arrigo Levi, sul quotidiano La Stampa del 12.9.2009, ha scritto: “Vorremmo non dimenticare l’Italia sconvolta dal terremoto dell’Aquila, unita in una risposta corale, altamente civile, per l’ondata di soccorsi giunti da ogni regione alla terra abruzzese ferita”.

Se queste parole sono un elogio alla solidarietà dimostrata dal popolo, sorgono invece parecchie perplessità per quanto riguarda l’operato del Governo.

E’ vero infatti che le nuove abitazioni sono state assegnate, nei tempi previsti, a chi prima era provvisoriamente rifugiato in tende da campo – e ciò è un merito che va apprezzato – ma è anche vero che non è mai stato abbozzato un piano organico di ricostruzione, né è mai stato chiarito con quali criteri urbanistici progettare i nuovi insediamenti, né con quali indirizzi architettonici costruire le nuove case.

Ricostruire si deve, non c’è dubbio. Ma ricostruire dove, come, quando? Ricostruire sul medesimo luogo in cui si trovavano le case distrutte o in un luogo diverso? Ricostruire adottando forme, volumi, caratteri stilistici, uguali a quelli di prima o differenti e anche apertamente difformi? Ricostruire con la massima urgenza, e quindi con esiti inevitabilmente condizionati dallo stato di emergenza in cui si è costretti ad operare; oppure ricostruire in tempi più lunghi e meno precipitosi, e quindi con possibilità di approfondire meglio i complessi problemi sia di ordine progettuale che esecutivo?

Autorevoli rappresentanti della cultura architettonica hanno auspicato una ricostruzione fedele, da effettuare sul medesimo posto in cui si trovavano le case andate in rovina. L’architetto Renzo Piano, in una intervista sulla stampa, ed il prof. Franco Parini, in un dibattito televisivo, hanno dimostrato di non avere dubbi sulla necessità di restituire agli abitanti le stesse case in cui avevano vissuto.

Sul “Giornale dell’Architettura”, n. 76, Paolo Marconi, parlando della ricostruzione spiega “per quale motivo essa deve essere com’era e dov’era”; ed afferma che è legittimo, anzi doveroso, ricostruire fedelmente nel luogo e nelle forme originarie. Infine aggiunge che “la duplicazione”, ossia la copia dell’originale”, è diventata un obbligo di civiltà, giacché “i centri urbani vanno considerati icone permanenti delle culture locali”.

Il desiderio di tornare ad abitare nello stesso luogo in cui si è vissuto per anni, è profondo, atavico, istintivo. Nel corso della Storia le città distrutte venivano ricostruite nel luogo in cui erano state fondate; risorgevano, come la mitica Fenice, dalle loro stesse ceneri.

La città di Troia, per sette volte, è stata caparbiamente edificata sempre nel medesimo luogo. Tuttavia occorre tenere presente che la ricostruzione avveniva senza riferimenti al passato, senza la preoccupazione di conservare quanto esisteva in precedenza, senza nessun obbligo di rispettare la Storia. A quei tempi la ricostruzione non era gravata da vincoli culturali di rigida conservazione; non era tenuta ad imitare né rispettare le costruzioni preesistenti, non si poneva scrupoli di fronte alla tradizione, né sentiva il dovere di salvaguardarla e di continuarla.

Oggi, al contrario, l’atteggiamento di fronte alla Storia si è radicalmente modificato: le testimonianze del passato hanno acquisito un valore culturale, a cui non si intende più rinunciare, gli edifici antichi rappresentano un patrimonio spirituale di importanza primaria da cui non è più possibile prescindere. Oggi, il principio che impone di costruire “com’era e dov’era” sembra essere la risposta corretta e condivisa da tutti per avviare la rinascita delle città gravemente danneggiate o interamente distrutte. Eppure tale principio non può essere applicato in modo assoluto e rigido, non va perseguito con spirito dogmatico e miope.

Sappiamo che non tutti i crolli sono avvenuti nel cuore del centro storico, molte volte le case distrutte si trovano in zone periferiche, spesso desolate e depresse, altre si tratta di case insignificanti, banali, misere, senza nessun valore storico, perché costruite di recente e senza nessun valore architettonico, perché progettate male, spesso ricorrendo a tecniche edilizie difettose, se non disoneste, per colpa delle quali si è contribuito a provocare i gravissimi crolli. In questi casi, così problematici, ha senso ricostruire rimanendo nel luogo di origine? E’ giusto evocare ancora i ricordi, gli affetti, l’attaccamento al posto in cui si viveva? Non traspare in questo insistente ancorarsi al passato una implicita sfiducia nell’architettura e nell’urbanistica contemporanea?

Nel fervore delle iniziative prese dopo il terremoto; nel moltiplicarsi di proposte e controproposte formulate dagli esperti, non si è mai fatta una chiara distinzione fra case del centro storico, ossia costruzioni prevalentemente antiche, e case di periferia, ossia costruzioni in generale moderne: per le prime vale una ricostruzione che sia il più possibile fedele, per le seconde è accettabile un’edificazione interamente nuova. Non è escluso che quest’ultima sia anche migliore di quella antecedente il terremoto.

Inoltre va tenuto presente che all’interno del centro storico non sempre il crollo ha lasciato vuoti desolati e tragici, non sempre ha avuto effetti dolorosi e negativi.

A volte, al contrario, lo stesso crollo può aver aperto spazi di maggiore respiro, liberato aree precedentemente malsane e sovraffollate, eliminato edifici fatiscenti e di scarso valore architettonico. Come si può, in questi casi sostenere che la ricostruzione dell’edilizia preesistente deve essere attuata “com’era e dov’era”?

E va anche tenuto presente che nella periferia delle città il crollo può avere danneggiato qualche villa patrizia di valore artistico o qualche casolare rustico di valore storico; ed in tal caso la ricostruzione deve essere, nei limiti del possibile, fedele all’originale, tuttavia sempre nelle stesse periferie sappiamo che si sono formate infelici espansioni edilizie prive di qualsiasi valore architettonico, senza un disegno urbanistico razionale. In tal caso ci si domanda se abbia ancora senso ripristinare esattamente la situazione preesistente, o piuttosto se non sia più saggio approfittare delle distruzioni causate dal terremoto, per creare nuovi e più felici nuclei periferici, e porre rimedio ai guasti di un’edilizia nata con criteri esclusivamente speculativi e commerciali, e quindi totalmente priva di decoro, di dignità, di bellezza.

Il compito di progettare nuovi insediamenti sarebbe l’occasione opportuna per interrompere la soffocante espansione urbana che da anni si svolge a diretto contatto con la città già costruita. Arrestare la crescita edilizia che si allarga “a macchia d’olio” intorno al vecchio nucleo storico, senza interporre, tra la nuova e la vecchia edificazione, momenti di pausa e di respiro. Se si fosse attuato dopo il terremoto un programma di ricostruzione serio e lungimirante ci sarebbero state tutte le premesse per introdurre un nuovo tipo di crescita urbana, basata su centri autonomi, separati dal nucleo antico e da questo sufficientemente distanziati; così da costruire un sistema di insediamenti a se stanti, seppure non isolati, né lasciati sprovvisti di comunicazione con il capoluogo preesistente, intorno al quale essi sarebbero venuti a trovarsi.

Un modello di crescita per nuclei autonomi, se prospettato in modo superficiale e sbrigativo, com’era piaciuto al nostro Presidente del Consiglio, incorre nel pericolo di dare vita ad una inaccettabile segregazione sociale: pericolo messo bene in evidenza da Filippo Beltrami Gadola, in un passato numero di questa rubrica.

In questo caso la segregazione può riguardare tanto i quartieri ricchi, come si è già verificato nell’insediamento di Milano Due, quanto i quartieri poveri, divenuti tristi esempi di periferia urbana, privi di qualità spaziale e di calore umano.

Se al contrario lo stesso modello di crescita per nuclei autonomi viene elaborato con consapevolezza critica e competenza teorica, cioè con cultura e conoscenza della storia urbanistica, esso può costituire una preziosa indicazione per lo sviluppo della città futura e per la sempre più urgente organizzazione del territorio.

Dopo il terremoto si apre un’appassionante sfida per architetti ed urbanisti. Un compito impegnativo, arduo e coraggioso: come progettare le nuove città, da un lato rispettando e restaurando gli edifici carichi di valore storico, dall’altro demolendo e sostituendo gli edifici privi di qualità estetica.

Jacopo Gardella



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti