7 gennaio 2015

MILANO, L’EXPO E IL NUOVO ACCORDO TRA ARCHITETTURA E CITTÀ


È sempre utile partecipare al dibattito che ArcipelagoMilano tiene aperto in questa città. L’ultimo numero accoglie un’interessante riflessione di Giuseppe Longhi sulla crisi degli architetti e del loro mestiere. Si tratta di un ottimo contributo, in larga parte condivisibile, anche per quei temi che, spesso, gli architetti stessi mettono poco in evidenza e dei quali vorrei qui parlare.

04bono01FBSu di un punto, però, mi sento di non concordare con Longhi, o perlomeno di considerare in modo diverso gli elementi per la costruzione dello scenario della necessaria riprofessionalizzazione. Proprio perché la dominante è la fine storica di ogni copyright, in favore del creative common, la nuova operosità non potrà venire da autorigenerazione, magari con il supporto degli ordini, nonostante le loro possibili aperture, come quelle spesso positive dell’Ordine di Milano. Dipenderà, credo, da mutamenti di ordine superiore rispetto all’ambito disciplinare: un nuovo accordo tra architettura e città, tra progetto e politica; oggi visibilmente divaricati. Il mestiere nuovo non potrà che passare, anche contraddittoriamente, attraverso la consapevolezza dell’intellettuale critico.

Molecolarmente, nello stato attuale, ognuno supplisce alla crisi come può … nel mio caso (per fare un esempio che conosco) ritirandomi nel paesello in cui l’amica gentile ti presta un pezzo di casa, ove predisporre quei pochi seminari da svolgere nella Scuola di Architettura di Bovisa, che peraltro chiude i battenti per tornare all’ovile.

E quindi, venendo periodicamente a Milano, ci si accorge ogni volta delle divaricazioni di cui sopra: e già all’approdo, alla stazione. E, guardando la città nel suo insieme, ancor prima di un qualsiasi seminario, ci basta un manuale consultato di fretta, per ricordarci che nel mondo antico, il concetto di città “nasce dalla fusione dei suoi due elementi costitutivi: l’area urbana e il territorio. Una grande parte della popolazione è stanziata nella campagna, che rappresenta lo spazio vitale e la base produttiva di ogni città”. (F. Fabiani, Città e paesaggi, Roma 2014).

Ora noi ci chiediamo: perché, in logica di Expo 2015, la Città mondo – sia pure attuale e non antica – dovrebbe fare eccezione? (non più gran parte della popolazione, ma buona parte del paesaggio). E un modello (attualizzabile) di quella città, con la sua Bassa agricola e i boschi prealpini, non è forse (stata) la Lombardia? Expo come occasione di relazioni ampie nella città e verso il mondo, riscoperto col risalire a ritroso dalla globalizzazione.

E invece no: Milano, nella sua idea o visione attuale, è sempre ridotta a luoghi residuali, interstiziali, e come tale si presenta al mondo. C’è un’area di risulta in una mancata relazione tra Milano e Rho? Ebbene: facciamone (con Expo) un esempio di modernità, o piuttosto una riduzione della stessa, con i suoi percorsi modesti, e con il visto già visto delle architetture possibili, e sia pur cercando di metterci tutto, anche l’acqua che non c’è più: o c’è dove non deve. Assai uggioso vedere reiterata tale maniera di compattare relazioni che sarebbero vaste, nel birignào di un gesto.

Prendiamo la recente sistemazione della citata Stazione Centrale. Quella che per il de Finetti non si accordava con uno sviluppo corretto: essa non è stata reinterpretata come luogo della città, magari anche consolidando e integrando funzioni, ma (aziendalisticamente) è diventata un montaggio fallato, nel quale non riconosci più lo spazio dell’accoglienza e quello del commercio: e dove il piano del ferro si è perduto in un al di là agognato ma irraggiungibile. C’è la galleria delle carrozze? Neghiamone la necessaria complanarità per conquistare agevolmente l’ipogeo dove possa avere più spazio la bottega dell’intimo. C’è l’evidenza della salita (anche se “troppi gradini per poi prendere l’accelerato per Rho”)? Neghiamola con la trasversalità labirintica, ma utile per accedere al negozio dei sigari. C’è finalmente la galleria superiore? Neghiamone l’unità spaziale con totem girevoli che con ingombrante evidenza impongano messaggi per gli acquisti: in loco e altrove (com’era discreto, invece, l’appuntamento alla nave!).

La sistemazione della Stazione Centrale, con il suo progetto invadente ma non invitante, è la metafora di una città che celebra e loda se stessa, dall’alto della cattiva coscienza di aver distrutto la sua (possibile) magnificenza. Capitale mancata e occasioni perdute: questa è stata spesso la lettura, ed è forse ancora la sintesi di Milano.

Quanta diffusa differenza (e in negativo) con le altre città storiche italiane, ben più virtuose anche se inferiori per dimensione (a cominciare dalle piccole cose, come le scale mobili di Perugia). Prendiamo un recente progetto fiorentino, dove si è voluto fare del Mercato centrale, quello di San Lorenzo dovuto allo stesso Mengoni della nostra Galleria, un punto di incontro (al piano superiore) e di eccellenza del cibo italiano, e del suo scambio sulle tavolate che potrebbero persino includere il cartocciaro. Eccolo: e con molta eleganza mi pare, non primo per autocelebrazione, ma primus inter pares (con anche Eataly, certo, ma non esclusivo e ostentato; e con il piano di sotto ancora dedicato al mercato del quotidiano).

Poi per carità, Milano “la grande”, e bene – tra le varie dimensioni – il bosco verticale, e anche utile suscitarne l’attrattiva grazie all’elezione a miss torre del 2014 (nel ’15 non sarà più la più bella del reame?); ma intanto abbiamo con una mano promosso un architetto (Stefano Boeri) e, con l’altra perduto il miglior Assessore alla cultura che si poteva avere, proprio in tempo di Expo (sempre Boeri, anche per le sue relazioni culturali). Bene il verticale dico, ma non avevamo un tempo, e voglio ripetermi, anche l’orizzontale alla Villa di Monza, parco dei milanesi come da dedica di re Umberto, con tanto di relazione ampia (e comoda) del tram da Porta Argentea o Venezia?

E queste ampie relazioni non avrebbero dovuto essere anche l’essenza, la base e il dispiegamento di un progetto per Expo 2015? (senza trascurare Chiaravalle, i prati di marcita, sia pur quasi scomparsi, ma persistenti in tema di governo delle acque, e la Bassa). Tra parentesi: vedo, dagli spot, che l’idea del cibo come necessario alla vita è stata declinata come il cibo è bello: verissimo, forse restrittivo. Ma tant’è.

Infine comprendo certo il diffuso apprezzamento per il nuovo, che per molto mancò a Milano, e comprendo, tra i tanti, il dinamismo e la visione di Lavinia Albertini Borea che, dalle colonne del Corriere della Sera (13 dicembre) si dice contenta di aver lasciato via Cappuccio per la casa di Zaha Hadid a CityLife; ma non posso dimenticare l’occasione mancata (sia pure a suo tempo promessa) di trasformare – spostando la Fiera – la vecchia Piazza d’Armi, tutta intera, in un parco per tutta la città (e per le sue relazioni).

Per fortuna Milano, con la sua regione, è realtà vitale, e facendo il solito esempio, quello che doveva essere progetto in partenza diventa lentamente – per forza di cose più che per intenzione consapevole – una realtà: l’unione o relazione, nel caso, tra Cascina dei Gatti a Sesto, parco Adriano ed ex Maserati in Milano. Ma nel frattempo quanta disattenzione, o inettitudine o, per dirla con un’immagine illustre, quanta lava è calata sul tutto, e quanto lenti sono gli esiti positivi: e allora vengano pure, da varie parti, per Expo; ma venga anche “colui che d’esaltar con lode il nostro stato ha in uso: … dipinte in queste rive son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive“.

 

Cristoforo Bono

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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