28 settembre 2009

OCCHIO ALL’INFRASTRUTTURA


L’attraversamento della Cote d’Azur in autostrada è un fluire calmo, lo sguardo spazia ampio sul susseguirsi dei cartelli che segnalano le uscite: Cannes, Antibes, Nizza, più avanti Roquebrune-Cap-Martin, li dietro c’è il Cabanon di Corbu affacciato sul mare, e vicino la E1027 di Eileen Gray, splendida casa, piena di accorte invenzioni sull’abitare (e splendida anche Eileen, donna aviatrice dell’architettura moderna) che si nascondono tra sentieri e vegetazione. Si prosegue, il traffico è sempre intenso d’estate ma è fluido, rilassato, si rispettano perfino i limiti di velocità. Si arriva a Menton, si avvicina il confine, si passa, si entra nel Belpaese. E di colpo la strada si fa angusta, cominciano a intravedersi quei puntini luminosi sullo specchietto retrovisore, prima lontanissimi, un attimo dopo già attaccati come mastini al posteriore della tua macchina, quasi volessero azzannarlo da dietro. Non abbaiano ma abbagliano, minacciosi e impazienti che gli si ceda il passo. Incazzati. E viene il dubbio che sia il paesaggio, o meglio un’infrastruttura sicuramente più scarna e avara, a renderli nervosi, tanto da accanirsi su chiunque possa disturbare la loro molesta velocità di crociera. Questo l’ingresso in Italia.

Pressappoco 280 chilometri più avanti, e 2 ore e 50 minuti dopo secondo viamichelin (ma per i mastini di cui sopra molto meno, suppongo) Milano sembra aver voluto compensare cotanta ‘piccineria’ d’impatto infrastrutturale. È ormai da qualche anno che, in barba alle manifestazioni dei comitati cittadini di allora, si erge il cavalcavia su piazza Maggi, “mostro di cemento e asfalto” costato 17 milioni di euro e la vita di decine di alberi ad alto fusto senza risolvere nulla, come prevedibile da qualsiasi studente di urbanistica al secondo anno, del traffico veicolare.

E però, c’è il gesto architettonico, e addirittura l’orpello che, con un’ironia che sa di sfottò, sembra richiamare la memoria del verde distrutto con il colore della carpenteria metallica, serie di anelli in successione di cui, supporto all’illuminazione a parte, si fatica a capirne il senso e pure l’estetica (fosse almeno un gioco metaforico con il luogo, come quello del Webb Bridge nel porto di Melbourne, progettato a mo’ di trappola per le anguille tipica dei Koori, gli indigeni australiani dello Stato di Victoria). E invece qui ci si infila come nella pancia di un grottesco, scheletrico biscione (ho detto biscione? Ah, ecco, forse è questa la metafora).

Ma sembra un trend, ormai, quello di arricchire gli ingressi in città dalle autostrade milanesi con piccole spettacolarità. La porta di Milano che si sta configurando a Piazzale Kennedy, presenta da poco un altro manufatto infrastrutturale, un sovrappasso non grande di per sé, ma sostenuto da corpose arcate tubolari d’acciaio, tra il grigio e l’arancione nei giunti, tanto sgargianti quanto sovradimensionate, che non fanno inneggiare alla maestria del calcolo statico, sinceramente, ma piuttosto a certa velleità figurativa.

Come interpretare questi segnali? I corposi interventi previsti per l’Expo 2015 portano a sollevare il problema (non a “porlo”, come distingueva Bianciardi ne “Il lavoro culturale”, perché non è cosa che viene fuori da sé, ma a “sollevarlo” attivamente). E cioè: che differenza passa tra infrastruttura e architettura? Nelle città globali, secondo Saskia Sassen, le downtown direzionali, gli standard spaziali, le neutre predisposizioni ad una flessibilità infinita delle funzioni, differenziate solo per gli strumenti finanziari che offrono, hanno spesso reso l’architettura una mera infrastruttura. Non è certo un gran modello. Ma forse che la risposta milanese, nel torpore localista che respiriamo da ormai troppo tempo, vuole risollevarne le sorti con infrastrutture che diventino “architetture” a tutti i costi? E con quali risultati? A guardare il logo dell’Expo, c’è di che essere preoccupati, con quella grafica da strapaese che sta facendo il giro del mondo.

Michele Calzavara

 

 

 



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