28 settembre 2009

COME FUNZIONANO LE NOSTRE UNIVERSITA’


I corsi universitari stanno per cominciare, e in alcune università sono già iniziati. Il sistema universitario milanese produrrà didattica per circa 235000 studenti ( dato 2008), di cui una parte – minore – afferisce a sedi decentrate lombarde. È evidente l’importanza di tale numero per la nostra città.

Milano è la seconda città universitaria italiana, dopo Roma che assorbe circa 293000 studenti ( dato 2008). A Milano vi è una mega-università – la Statale con circa 77000 studenti – tre grandi – Cattolica (48000), Politecnico (48000), Bicocca (37000) – una media – Bocconi (14000) – e due piccole – IULM (7000) e S.Raffaele (2000). Roma ha invece una situazione più sbilanciata: accanto alla Sapienza – ben 181000 studenti – ve ne sono due di dimensioni grandi simili a quelle milanesi – Tor Vergata e Roma III – e quattro piccole, private – LUISS, LUMSA, Campus biomedico, Foro italico, S.Pio V.

Nelle aule delle università milanesi, a fronte di tanti studenti vi è la popolazione dei docenti, dalle cui caratteristiche dipende la qualità dell’insegnamento. Quanti sono e che caratteristiche hanno? Alcuni dati d’insieme sono sufficienti a dare un’idea.

Complessivamente i docenti di ruolo – ordinari, associati, ricercatori – erano ( sempre nel 2008 ) 6600: in media uno ogni 35.5 studenti. Roma è messa un po’ peggio: 41 studenti per docente. Scendendo più nei dettagli emergono due dati interessanti.

Questi docenti sono affiancati da un numerosissimo gruppo di “docenti a contratto”, ossia persone generalmente – ma come vedremo non sempre – esterne all’università e che vengono “ingaggiate” esclusivamente per la docenza di corsi o di loro parti: professionisti, persone che lavorano nelle imprese o nella pubblica amministrazione, artisti,etc. Sorpresa! Il loro numero complessivo è ben superiore a quello dei docenti di ruolo (9450 ): lo squilibrio è massimo nelle università private – 4700 a fronte di 1857 docenti di ruolo –, dove in realtà possono anche essere professori di ruolo nelle statali. Il loro peso è fortissimo nelle facoltà di Medicina, ma significativo anche in quelle in cui si formano professionisti, con l’esclusione delle facoltà di Giurisprudenza. Un fenomeno analogo si ritrova nelle università private di Roma, ma non nelle statali.

È un esercito di docenti “amatoriali” che vende il proprio tempo all’università a un prezzo assai basso, variabile tra i 2500 e i 4500 euro per corsi di 40/50 ore di didattica, e quindi per una retribuzione oraria effettiva di circa 25/30 euro. Tale fenomeno non ha eguali nelle università straniere dove non è certo escluso che i corsi, o più spesso loro parti, vengano impartiti da persone ad alta professionalità non accademica, ma con retribuzioni appropriate e in misura assai limitata.

Perché dunque esiste questo esercito di sottopagati e quali ne sono i risultati didattici ? Essi abbassano il costo medio della docenza, con gran beneficio per le casse, non solo delle università private. È un evidente sollievo economico per le università.

In parte questi contratti sono l’ inevitabile conseguenza del fatto, sciagurato, che da anni l’accesso alla carriera universitaria è quasi bloccato. Stante l’attuale struttura dei corsi, la didattica subirebbe un decisissimo taglio se i “contrattisti” come d’incanto scomparissero. È però anche vero che le università hanno prodotto un boom di corsi che non sono frutto di una prescrizione ministeriale, ma della loro politica, interessata a espandere l’offerta, e, spesso, ad alimentare rapporti mutualmente vantaggiosi con le professioni.

Correttamente dunque il ministro Gelmini ha recentemente deciso di porre un limite al numero dei corsi e dei contrattisti. Sarebbe però il caso che la Gelmini aprisse di nuovo anche l’accesso alla carriera universitaria. Da parte loro i contrattisti traggono molte soddisfazioni personali dalla didattica, e spesso, se professionisti, una consistente valorizzazione della loro posizione di mercato. Questo spiega l’accettazione di così basse retribuzioni. Il cerchio così si chiude.

Dal punto di vista didattico la presenza di competenze tecniche molto specifiche può avere senso, quando sono necessari interventi didattici al confine tra la formazione universitaria e professionale. Quasi sempre tuttavia questa docenza è abbandonata a sé stessa, così che si forma una struttura didattica parallela poco organizzata e poco coordinata con quella di base, e i cui esiti non sono in genere verificati. In sintesi, un fenomeno in qualche misura fisiologico si è trasformato in patologico.

Un secondo aspetto emerge dai dati riguardanti docenti di ruolo. Per il complesso degli atenei milanesi i professori ordinari rappresentano circa il 30% del totale e i ricercatori il 43 %. Questo significa approssimativamente che circa un terzo della docenza ha un’età eguale o superiore ai cinquant’anni. Su questo dato Milano non è messa molto peggio di altre città universitarie. Che vuol dire? due cose. Innanzitutto che il corpo docenti è piuttosto vecchio. Osserviamo, per inciso, che anche l’età media dei ricercatori è piuttosto alta. Come se non bastasse a Milano – Statale – molti docenti sembrerebbero desiderosi di prolungare l’ età di uscita, a giudicare dal ricorso al TAR contro le indicazioni ministeriali e di facoltà che fissano a 70 anni l’età di pensionamento.

In secondo luogo questo dato sta a significare che la capacità delle università milanesi, con qualche eccezione tra le private, di cogliere ed accompagnare il rinnovamento tecnologico, sociale ed economico della Lombardia è sempre più debole. Nella nuova società della conoscenza l’università milanese rischia di essere una pallida figura, che per di più mostra di non sapersi reggere sulle proprie gambe, dovendo ricorrere così massicciamente ai “contrattisti”.

Francesco Silva



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