17 dicembre 2014

ARCHITETTI IN CRISI: UN FUTURO DA PROFESSIONISTII 2.0?


Il Consiglio Nazionale degli Architetti, per voce del suo Presidente, illustrando i risultati della quarta indagine sullo stato della professione promossa dallo stesso Consiglio in collaborazione con il Cresme, si aggrega al lamento internazionale per la caduta del mercato professionale (“siamo alla soglia della povertà” dichiara il Presidente), di conseguenza invoca “un grande progetto governativo d’investimento in idee e denaro sulle città per intervenire sugli 8 milioni di edifici che si avviano a fine vita; per risparmiare 25 miliardi di euro all’anno di energia; per mettere le case e le città in sicurezza da sismi e inondazioni; per realizzare spazi pubblici che ridiano il senso delle comunità, ricreando le condizioni affinché fioriscano idee, innovazione e impresa”. Infine, promette una riorganizzazione in rete dei professionisti, in cambio, ancora una volta, di un’agevolazione fiscale, in questo caso per coloro che si aggregano.

05longhi44FBUna situazione analizzata anche dall’Economist (“Dietro il glamour, la professione di architetto in Europa sta attraversando un rapido cambiamento“, 16 ottobre 2014), il quale sottolinea come la caduta del settore in Europa sia strutturale, infatti essa è maggiore della caduta del PIL e deve fare i conti con una contrazione futura del settore delle costruzioni.

Il declino della professione di architetto ha ragioni profonde: l’affollarsi di professionisti che offrono servizi simili, come ingegneri e geometri; la crisi del business principale – progettare nuovi edifici “su misura” – dovuta a metodi di costruzione automatizzati, standardizzati e meno costosi, che riducono la richiesta dei servizi di progettazione su misura. Come ricorda Rem Koolhaas: “attualmente assembliamo elementi che sono stati progettati da altri, prodotti di massa in serie, offerti in cataloghi su internet, accessibili a chiunque e messi insieme da lavoro sempre più indifferenziato”; la difficoltà e la resistenza nell’affrontare i processi innovativi imposti dalle Convenzioni internazionali sull’ambiente, che richiedono meno input dagli architetti e nuove capacità per soddisfare requisiti ecologici sempre più sofisticati.

Tutto questo significa una trasformazione radicale della professione di architetto, che vede esaurirsi, come sottolinea Hermann Herzberger, la sua dimensione romantica (“non saremo più sepolti accanto al principe” ricorda), per assumere una dimensione “industriosa”, che organizza processi progettuali completamente automatizzati (dal BIM al LEED’s), con tecnologie sofisticaste, dai droni per i rilievi, alla 3D printer per la realizzazione di componenti degli edifici, al robot Arduino per l’automatizzazione dei processi. Oggi questa trasformazione viene vissuta in modo schizofrenico “svolazzando tra architettura come arte e costruzione come strumento di modernizzazione” (Rem Koolhaas, flyer di Elements of Architecture, Biennale di Venezia 2014) .

Una schizofrenia che aumenta nell’attuale epoca digitale, con la difficoltà di gestire data base sempre più complessi, con l’esasperante ricerca di livelli di confort e di sicurezza sempre più elevati e con l’esigenza di reinterpretare oggetti che sono stati passivi per migliaia di anni, in oggetti biologici e interattivi, capaci di raccogliere e inviare informazioni.

Delle prospettive della dimensione digitale dell’architettura si fa carico Carlo Ratti attraverso una scrittura collettiva sintetizzata nel piccolo volume “Architettura open source” (Einaudi, 2014). Ratti sottolinea il persistere di un “rapporto feudale committente – architetto – utente”, dove accademici e professionisti sono ‘disconnessi’ dalle esigenze concrete degli utenti.

Per usare una definizione riduttiva, l’architetto funziona ancora secondo il modello autoriale del Copyright, mentre la progettazione, i media e la cultura si muovono verso il Creative Common.

E questo è il punto: la visione del progetto come atto creativo individuale (o meglio top-down, con il progettista dominatore assoluto), che vede l’articolazione del processo progettuale come una sequenza di diritti proprietari, o copyright, è oggi affiancata da un’altra che rivaluta l’opera creativa come opera corale, non negando il concetto di autore. Il progettista non è più il solo, definitivo, inviolabile proprietario della sua opera, ma piuttosto il primo ramo di un albero da cui nascono nuovi rami grazie a ogni collaboratore aggiunto (questo in sintonia con il modello virtuoso di sviluppo proposto dagli scenari Shell, secondo il quale la governance segue la metafora della banda jazz, nella quale il capo della banda da inizio a una suonata, a cui contribuisce una molteplicità di soggetti).

Rinasce, secondo Paola Antonelli, il progetto come cultura dello sperimentare, provare, riprovare, adattare e contemporaneamente condividere. Flessibilità, evoluzione, adattamento si coniugano con il riconoscimento dell’autorialità. Passare dalla logica della “proprietà assoluta” del progetto a quella della condivisione non è semplice, occorre avere capacità organizzative evolute. Occorre inoltre avere una visione delle regole che governano una molteplicità di discipline, e questo non è semplice né immediato. Occorre passare rapidamente dal fai da te, al fai con gli altri, attraverso la creazione di piattaforme collaborative che esplodono il valore (anche economico) della condivisione: il progetto diventa così “smart” in quanto frutto della condivisione e strumento esso stesso per condividere.

È questa la trasformazione che si attende dagli ordini professionali, da ‘club’ in declino a industriosi organismi il cui ruolo è creare le nuove aggregazioni di servizi e le economie di scala indispensabili alle aggregazioni di professionisti per operare creativamente sul mercato: ordini professionali e interprofessionali nuovi organismi tesi a gestire i big data e a fornire i nuovi supporti tecnologici per la produzione del progetto, al fine di supportare la creatività individuale con strutture collettive destinate ad abbassare il costo di produzione del progetto, contenere i tempi di realizzazione, aumentare il valore aggiunto.

Solo questa nuova organizzazione degli ordini professionali, finalizzata all’aumento di capacità degli aderenti può legittimare l’aspirazione a rigenerare edifici e città, nel nostro paese e altrove.

 

Giuseppe Longhi



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