17 dicembre 2014

MILANO E L’ARCHITETTURA MODERNA. MEMORIA STORICA E IMPASSE CULTURALE


Il rinnovamento architettonico di Milano suscita dibattiti e prese di posizione anche su ArcipelagoMilano e ogni volta, quando si parla del patrimonio edilizio di Milano anzi del patrimonio edilizio tout-court soprattutto da parte di architetti e tecnici dell’edilizia, ci si imbatte in feroci critiche verso gli organi istituzionali preposti alla tutela degli edifici, sia che si tratti delle soprintendenze, sia che si tratti delle commissioni del paesaggio, colpevoli, secondo molti, di non garantire la modificazione e la libera rigenerazione della sostanza edilizia, oltre che di rallentare in complessi iter burocratici le procedure.

09ricci44FBD’altra parte si assiste allo spettacolo delle indignazioni quando un pezzo di architettura, o una parte di un caratterizzato tessuto edilizio, cadono in mano a professionisti e tecnici insensibili alla storia urbana e alla storia dell’architettura, e si vorrebbe estendere quelle capacità di veto caratteristiche degli organi preposti alla tutela, che invece, soprattutto riguardo alle soprintendenze, sono avviate verso un lento ma inesorabile smantellamento.

Inoltre l’osmosi tra liberisti e conservatori riguardo queste tematiche è paurosa, e tale da rendere paradossale un posizionamento dialettico alla ricerca di qualsivoglia proposta operativa o normativa. Nonostante la complessità di questi argomenti, e la profonda burocratizzazione di procedure che dovrebbero invece essere snelle e flessibili, mi pare che al fondo del dibattito vi sia un tratto culturalmente distintivo della contemporaneità che viviamo: sembra quasi che il singolo soggetto quando agisce nella sfera pubblica e per il bene comune aderisca a tutta una serie e gerarchia di valori e principi, valori e principi che troviamo rovesciati di senso quando lo stesso soggetto agisce nella sfera privata e per il suo tornaconto individuale.

Non si tratta dunque di schieramenti che si confrontano, ma di una profonda ambiguità culturale, che nessuna norma, nessun ufficio, nessuna lotta di quartiere potranno infrangere. Bisogna poi ricordare che l’edilizia storica nel nostro paese è un’edilizia fatta per durare, e sarebbe assurdo estendere una tutela a quegli edifici che hanno meno di un secolo di vita: dunque il problema è squisitamente culturale soprattutto se parliamo di edifici privati non storici, in cui è la sensibilità e la coscienza civica, anzi l’acume, mi viene da dire, del proprietario e dell’operatore, che fanno la differenza tra uno scempio o un buon intervento di modificazione del patrimonio edilizio esistente.

Lo spazio pubblico è invece tutt’altro argomento, ma anche su questo gravano inesorabili le stesse ambiguità culturali e la stessa inadeguatezza, disattenzione o ignoranza, e solo in questo senso è possibile un confronto tra quanto avviene nel paesaggio metropolitano e riguardo alla definizione dei criteri per la sua modificazione. Proprio Ignazio Gardella parlava della forma architettonica come di un continuo processo conoscitivo pieno di difficoltà, e diceva ai suoi studenti che il “filo tagliente di una spada ha sempre dietro di se lo spessore della lama”: un’eccezionale metafora che coniuga forma a contenuto, conoscenza ad esperienza, ma anche individualità a collettività.

Giuseppe Terragni prima, Ignazio Gardella e Vittoriano Viganò poi – ognuno sorretto da una convinzione poetica molto diversa l’uno dall’altro ma da un’identica coscienza civile – sono stati tra gli architetti più rappresentativi dell’architettura italiana del Novecento non solo a Milano, e i loro nomi e opere sono ben storicizzate e ricorrono nei testi di storia dell’architettura. Speriamo che il problema non risieda proprio in questo.

 

Mario Ricci



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