17 dicembre 2014

sipario – GENERAZIONE DISAGIO: DOPODICHÉ STASERA MI BUTTO


 

INTERVISTA A GENERAZIONE DISAGIO: DOPODICHÉ STASERA MI BUTTO

 

Chi siete? Perché vi chiamate Generazione Disagio e di cosa parla il vostro spettacolo? Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo, di artisti, di attori, di amici, di compagni di avventure e di scoppiati che hanno deciso di riunirsi per dare vita a un progetto artistico proprio che condividiamo al 100 per cento.

Al momento coinvolti in questa stupenda follia utopica siamo: Enrico Pittaluga, Graziano Sirressi, Alessandro Bruni Ocana, Luca Mammoli, Riccardo Pippa e si sono recentemente uniti Andrea Panigatti e Davide Lorenzo Palla. Questi sono gli attori e il regista nonché co-autori. A bordo della nostra folle nave ci sono poi molte altre persone che collaborano alle scene, alla grafica dei disegni, alla tecnica e voglio nominarli: Duccio Mantellasi, Federcio Visconti, Niccolò Masini.

sipario44FBGenerazione Disagio è un nascente collettivo artistico che nasce appunto dal disagio esistenziale di una generazione di mezzo che non è rappresentata e che è sempre troppo giovane per essere presa sul serio ma ormai troppo matura per essere un semplice figlio a carico che si concede il lusso di essere un mantenuto che ancora non sa cosa vuole fare.

Siamo gli eterni giovani, sempre in secondo piano ma oramai adulti e preparati, che hanno studiato per fare arte ma finora non hanno ancora tirato fuori quello che più gli sta a cuore. È una sorta di collettivo di riscatto, dopo anni passati a studiare e a essere gli interpreti e la forza di progetti altrui, abbiamo scelto di intraprendere un percorso artistico nostro, che parli a tutti dei nostri bisogni, delle nostre aspirazioni e che sappia ridere delle nostre contraddizioni, che sappia ironizzare sulla nostra condizione di generazione di mezzo, in costante stato di precariato economico, emotivo e sentimentale.

Il nostro spettacolo parla di una paradossale filosofia, il disagio-pensiero, che predica l’accettazione passiva della condizione di disagio: se i tuoi problemi smetti di considerali problemi e azzeri le speranze di migliorare la tua vita non resterai mai deluso. Se non hai aspettative, non sarai mai deluso. Nello spettacolo facciamo una partita a un gioco dell’oca al contrario: vince chi perde.

Con l’aiuto del pubblico 3 personaggi e un cinico presentatore cercano di rovinare del tutto la loro vita, sperperandola nella superficialità e arrivando per primi alla casella finale, quella del suicidio. Più sfighe ti capitano, più avanzi, ma ci sono prove collettive, prove individuali e imprevisti che ti fanno avanzare e indietreggiare nel gioco.

Generazione Disagio: Dopodiché stasera mi butto” è un inno alla noncuranza, alla viltà, all’inettitudine e alla passività in chiave ironica e cinica, con un linguaggio diretto, graffiante e provocante. Si ride forte e amaro della condizione degli eterni giovani di oggi, tra i 18 e i 50 anni, perché ormai si resta giovani molto a lungo, chi sta al potere non molla il posto fino alla fine.

Alla fine non si sa se è un inno alla risata o alla rivolta per scardinare questa società in cui si può vivere soltanto da disagiati emarginati.

Come è nata l’idea e come l’avete sviluppata? L’idea è nata da un mio bisogno (Enrico) e da successivi incontri con i ragazzi che ho scelto di coinvolgere fin da subito. Siamo partiti dall’insoddisfazione e dalla voglia di confrontarci con il nostro quotidiano e il desiderio di amore, di un mondo migliore e della ricerca del nostro posto nel mondo.

Abbiamo deciso di giocare a interrogarci sui temi alti, ponendoci nella condizione di chi cammina su un filo di lama di rasoio, in bilico tra il mollare tutto e il lottare fino allo stremo, tra la vita e la morte, sia in senso figurato che in senso reale.

Abbiamo scritto ognuno pezzi di testo su varie tematiche che ci stavano a cuore: amore, lavoro, sessualità, spiritualità e poi li abbiamo lavorati con un meccanismo di paradossi, li abbiamo rimaneggiati e ognuno ha aggiustato i pezzi altrui. A un certo punto abbiamo tratto un testo dal nostro lavoro, anche con l’aiuto di una drammaturga (Alessandra Scotti), poi abbiamo sentito il bisogno di un occhio esterno e abbiamo coinvolto il nostro amico e collega Riccardo Pippa, che ci ha aiutati a dare una forma al lavoro, fornendo un contributo eccezionale dal punto di vista stilistico: abbiamo deciso di mettere in scena il meccanismo di lavoro stesso. Quello che era il modo di affrontare il processo creativo è diventato stile della rappresentazione.

Siccome stavamo giocando su temi profondi in maniera profonda ma ironica e cinica, abbiamo reso questo il nostro stile di spettacolo ed è nato “dopodiché stasera mi butto“, uno spettacolo grottesco e stralunato, un gioco macabro ma divertentissimo, che alterna pezzi di cabaret e teatro improvvisazione a monologhi drammatici e pezzi di coreografia trash. È diventato un gioco dal vivo, uno spettacolo-convention in cui il pubblico fa la differenza e cambia un po’ ogni sera.

La cosa ha funzionato e ha attratto curiosità, consensi e collaborazioni. Abbiamo vinto il premio giovani realtà del teatro, la menzione speciale al Festival Scintille di Asti e al Festival In-transito a Genova e siamo stati record di presenze al Torino Fringe Festival, fino all’attuale collaborazione produttiva con Proxima Res, compagnia teatrale milanese che ha chiesto di diventare il nostro co-produttore. Adesso debutteremo ufficialmente al teatro Elfo Puccini di Milano dal 26 dicembre 2014 al 4 Gennaio 2015, per poi dirigerci al Teatro della Tosse di Genova e in una successiva prima tourneè.

Tutti lavorate anche con grosse produzioni: qual è la differenza nel modo di lavorare? Qui sei molto più esposto in prima persona e nessuno ti tutela. Nelle produzioni ci sono lavori a monte che hanno fatto altri: una produzione, un piano di regia, una distribuzione e una scelta di linguaggi. Quando lavori in proprio non puoi dedicarti solo a essere interprete di un lavoro, ma devi scegliere, provare e difendere ogni parte del processo artistico, dalla scrittura alla recitazione alla promozione e la grafica.

Nessuno ti aiuta o tutela, però è tutto più tuo e sei più consapevole di ogni singolo traguardo. In una produzione puoi non condividere dei passaggi o delle scelte, sei un dipendente e sei più artigiano se vogliamo, quando fai le tue cose sei un artista a tutto tondo e se non sei convinto è difficile andare avanti, anche perché nessuno ti paga o incoraggia.

Spesso molte energie vengono assorbite da altro, non strettamente necessario al mestiere di attore e questo può affaticare e deludere a tratti, ma alla fine sei molto più appagato, è come mangiare l’insalata coltivata nel proprio orto. La differenza principale a livello economico è che senza una produzione spesso devi fare altri lavori per pagarti la possibilità di fare forse, un giorno, il tuo spettacolo.

Contemporaneamente sulle grande produzioni devi trovare il modo di far vivere parole altrui, quando sei tu a scrivere e creare devi cercare le parole per far vivere il tuo modo di sentire il mondo e non puoi prescindere dal pubblico a cui ti rivolgi, perché non hai nessun nome o titolo che già accredita come interessante o degno di attenzione quello che hai da dire.

Come attore servono entrambe le esperienze credo, da una parte affini tecnica e capacità analitica, dall’altra metti in gioco il tuo mondo interiore e ti costringi a capirti, a saperti esprimere e ad ascoltare cosa arriva al pubblico dal tuo lavoro. Le due cose si compensano e ti migliorano come artista.

Com’è secondo voi la scena teatrale milanese odierna? È ambivalente, è strana, ma è anche ancora aperta alla novità, forse è la più viva, pur avendo grandi limiti e contraddizioni. Da una parte è una scena chiusa, come quasi tutto il teatro, autoreferenziale, volta più a giustificare sé stessa o vivere dei fasti del passato che non a creare arte e cercare di parlare ai suoi cittadini veri e reali.

Sempre più si parla solo fra teatranti, si fanno spettacoli sul teatro e per il teatro, ignorando completamente una città che è composta da lavoratori che si alzano alle 5 e alla sera portarli a teatro è un miracolo se non un miraggio, perché giustamente sono stanchi e a certi prezzi non esci di casa se non ti viene garantito almeno un concerto rock.

Dall’altra parte per fortuna presenta ancora realtà in grado di cogliere una forza e un entusiasmo nuovi e sanno farsi accoglienti e propositive nei confronti di spettacoli e compagnie emergenti. È una scena vasta e con molti strati: si va dai teatri-museo agli spettacoli nei bar, e il pubblico se si sa parlargli non manca. Credo sia una città che ha ancora voglia e bisogno di socialità e teatro e sappia ancora riconoscere un buono spettacolo e premiare chi sa fare teatro, se gliene viene concessa l’occasione.

Credo però sia troppo competitiva e settoriale, spesso si sceglie lo spettacolo da vedere o mettere in cartellone in base al teatro invece che al gusto per l’opera rappresentata.

Come vorreste che fosse il teatro in Italia fra 20 anni? Popolare, diffuso, difeso, ringiovanito e contemporaneo. Lo vorrei pubblico e pieno di pubblico perché pieno di spettacoli belli e coinvolgenti, vorrei vedere spettacoli da cui il pubblico esce consigliandolo agli amici e non sbadigliando, lo vorrei senza biglietti omaggi ma con un prezzo basso per tutti, lo vorrei emozionante e che lasci a bocca aperta, vorrei tornare a sentire delle storie e a vedere il pubblico piangere e ridere.

Lo vorrei che scuota le coscienze e spinga all’indignazione o agli abbracci, lo vorrei come luogo abituale delle serate degli studenti e dei lavoratori, anche solo per bere una birra e parlare di società e politica.

Un teatro senza pubblico non è degno di stare aperto e una società che rinuncia al teatro e alla riflessione pubblica e condivisa è una società morta, pronta per l’annientamento e la dittatura. Il teatro deve tutelare la memoria, tramandare valori e domande e esperienza del passato ma anche produrre immaginario, mondi migliori e utopici e capacità di ridere delle atrocità. Solo così ci si salverà da futuri nuovi baratri di medioevi che appaiono non troppo lontani.

Se si rende la socialità e la cultura una cosa noiosa, settoriale o inarrivabile si diventa complici di diffusione di barbarie e ignoranza. Di qui a 20 anni ci piacerebbe pensarci invece felici, aperti, acculturati, gaudenti e ridanciani.

Magari anche innamorati. Il nostro urlo di disagio in fondo è una richiesta di affetto, siamo dei romanticoni.

Emanuele Aldrovandi

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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