3 dicembre 2014

musica – FIDELIO ALLA SCALA


 

FIDELIO ALLA SCALA

Come tutte le prime settimane di dicembre la città entra in fibrillazione per la serata inaugurale della Scala e per l’opera che viene prescelta. Per non andar troppo lontano, limitandoci all’era Barenboim, è successo nel 2007 con Tristano e Isolda, l’anno successivo con Don Carlo, poi con Carmen, la Valchiria, il Don Giovanni e il Lohengrin fino al delirio dell’anno scorso con La
Traviata. Tranne il Don Carlo che fu diretto da Daniele Gatti e La Traviata da Dmitri Tcherniakov, tutte le altre inaugurazioni hanno portato la firma di Barennboim, e non senza polemiche. Ricordiamo le aspre critiche al Lohengrin (con quel povero eroe, depresso, costretto a cantare a bagnomaria in uno stagno) e al Don Giovanni (con il fallito tentativo di stupro di donn’Anna inopinatamente trasformato in un felice e condiviso amplesso!).

musica42FBTutto però cominciò molto bene, con quell’indimenticabile Tristano (2007) in cui Barenboim sembrò finalmente l’uomo giusto, arrivato al momento giusto al posto giusto, nel senso di un grande e generoso direttore consapevole di salire sul podio di uno dei più importanti teatri al mondo e determinato a lavorare alacremente alla sua ricostruzione morale e artistica.

Poi non fu proprio così, se non saltuariamente: il direttore “scaligero” prese ad allargarsi occupando tutti gli spazi possibili; oltre a fare il lavoro per cui era stato chiamato, faceva il pianista solista, il pianista accompagnatore, andava in televisione, suonava e dirigeva insieme e la qualità è andata via via scemando fino all’altra sera quando in televisione, da Fazio, ha eseguito un improvviso di Schubert come avrebbe potuto farlo un bravo dilettante in casa di amici.

Eppure Barenboim è uno dei musicisti più dotati di quest’epoca, è stato capace di creare momenti magici e sublimi, sia da pianista – quando era giovane – che da direttore negli anni più avanzati. Ha voluto fare di più, sempre di più, di tutto, di troppo, fidandosi ciecamente della propria memoria, esperienza, sensibilità e cultura; era diventato una sorta di grande improvvisatore, vittima dei suoi successi provava poco e studiava ancora meno, diviso com’era fra Berlino, Milano e mille altri impegni.

È dunque comprensibile che in questo momento ci sia una grande attesa per la sua “ultima prima” (sic) scaligera, per la quale ha scelto un’opera altamente significativa da molti punti di vista, e cioè quel Fidelio dalla storia martoriata, perseguitato fin dalla nascita da mille problemi. Il povero Beethoven, che tanto lo amava (“… di tutte le mie creature, il Fidelio è quella la cui nascita mi è costata i più aspri dolori, quella che mi ha procurato i maggiori dispiaceri …”) è stato suo malgrado costretto a scriverlo tre volte (nel 1804, nel 1806 e ancora nel 1814) per renderlo accettabile al suo pubblico (che pure non gli ha mai fatto mancare affetto e ammirazione).

Un’opera di cui si è detto tutto e il contrario di tutto, probabilmente perché non era nelle corde di Beethoven scrivere un Singspiel (o una Pièce de sauvetage, come si vuole: prematuramente finiti gli anni di Mozart, Beethoven – come Rossini – era alla ricerca di una forma teatrale nuova) e tantomeno esaltare l’amore coniugale (lui, che questo amore lo ha forse desiderato ma mai conosciuto). Si è detto che il Fidelio è un inno alla libertà, figlio della rivoluzione francese e delle illusioni di Ludwig nei confronti dei Lumi vincenti (Fidelio è coevo della terza Sinfonia, l’Eroica, inizialmente dedicata proprio a Napoleone “primo console” di Francia); ma si è anche scritto che è una anticipazione dell’Inno alla Gioia della Nona Sinfonia. In realtà l’opera ha una struttura drammatica molto debole, comincia come una commediola leggera, vira poco a poco in tragedia e si risolve in un classico “arrivano i nostri” (il sauvetage, appunto).

Eppure quanto è bella!

Ho avuto la ventura di assistere domenica sera alla prova generale: una Scala gremita di gente attenta e interessata, un bel pubblico con molti giovani e in particolare molte ragazze che si destreggiavano bene con la trama non sempre chiara, cantata e raccontata in tedesco.

Sarà sicuramente vero che l’opera è sostanzialmente ingenua, poco avvincente e affetta da un eccessivo moralismo (il titolo dell’opera originale di Bouilly da cui il Fidelio è tratto – “Leonore ou l’amour conjugal” – la dice lunga sulla pasta di cui è fatto), ma la musica di Beethoven è struggente e ha il peso e lo spessore delle sue opere più famose, quelle che tutti conosciamo, e si capisce molto bene l’amore di cui l’autore la gratificava. Una musica che prendeva le distanze dal classicismo di Mozart e di Haydn e cominciava ad anticipare il secolo nuovo, le “tempeste dell’anima”.

Ma la cosa che riferisco con maggiore entusiasmo è che nell’occasione del suo addio alla Scala (che sarà sicuramente un arrivederci) con questo Fidelio Daniel Barenboim riscatta lo scarso impegno dedicato al Teatro nel suo settennato, sfodera le armi migliori, sfoggia una accurata concertazione con un ottimo cast di cantanti: soprattutto rivela una grande intesa con i due veri grandi protagonisti dell’opera, la strepitosa soprano austriaca, quasi italiana Anja Kampe nei difficili panni (è proprio il caso di dirlo!) di Leonora/Fidelio, e con il basso sudcoreano Kwangchul Youn nei più facili eppur delicatissimi panni del capo carceriere Rocco.

Curiosa e molto raffinata, infine, la regia di Deborah Warner che aveva già realizzato un Fidelio nel 2001 al Festival di Glyndebourne e che in questa occasione si è giovata delle semplici e belle scene di Chloe Obolensky e delle luci di Jean Kalman, forse un po’ troppo basse (d’altronde siamo o dovremmo essere in una prigione, ancorché trasfigurata in una fabbrica dismessa, e non so come se la caveranno con le riprese televisive!); dico una regia curiosa perché da perfetta inglese la Warner rappresenta l’amore coniugale di una castità inverosimilmente monacale, con i due sposi che – finalmente ritrovatisi in condizioni di fortissima emotività – si dicono parole piene di passione (“O namenlose Freude! Mein Mann an meiner Brust! An Leonorens Brust!” Oh gioia indicibile! Il mio sposo al mio petto! Al petto di Leonora!) senza minimamente avvicinarsi né tantomeno abbracciarsi, restando a cinque rispettosi metri di distanza l’uno dall’altra. Ah … gli inglesi!!

Vi saranno diverse repliche fra Sant’Ambrogio e Natale e pare che vi siano ancora posti disponibili; posso consigliare di andare a vederlo?

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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