26 novembre 2014

ESONDAZIONI: PREDICIBILITÀ DELLA FISICA E PREDICIBILITÀ DELLA POLITICA


Nel dopoguerra la questione idro-geologica in Italia, iniziata tre mesi dopo la breccia di Porta Pia, riemerse con la tragedia del Polesine (1951) e le terribili alluvioni in Calabria, Campania e Sardegna, mentre le due alluvione genovesi del 1951 e quella del 1953 passarono quasi inosservate. Il Piano Trentennale del Governo si focalizzò sulle arginature dei grandi fiumi e le sistemazioni forestali, secondo lo schema logico della ‘bonifica integrale’ di fascista memoria. Meno della metà dei soldi previsti vennero però spesi e il Piano morì di consunzione. Poi vennero Agrigento, Firenze, Venezia e il Veneto nel 1966, il Piemonte nel 1968 e Genova nel 1970.

07rosso41FBLa Commissione De Marchi licenziò quell’anno un piano organico a scala nazionale. Una visione lungimirante, che si tradusse in molti progetti importanti, come lo scolmatore del Bisagno a Genova del 1971. E i genovesi lo attendono da allora. La copertura del Bisagno è lo stesso prodotto culturale “progressista” del Ventennio che produsse il tombamento del Seveso e dei Navigli a Milano. E ormai tutti sanno l’effetto che fa. La difesa del suolo ha le sue mode. Oltre agli scolmatori, che non solo per il Bisagno ma anche per il Seveso sarebbe l’unica soluzione per garantire alla città un rischio accettabile, si parlò per un po’ anche di dighe. Invece di aumentare la conduttività idraulica, le dighe “laminano” la piena, addolcendone il picco. Delle dighe previste sull’Arno (quasi 20) ne fu realizzata una soltanto, anche perché del flusso dei finanziamenti promessi non si vide mai neanche l’ombra. E Venezia aspetta ancora il MOSE, che da neolaureato feci per primo dondolare in laboratorio. Era il 1975.

La ricaduta negli anni ’70 fu positiva. Si diffuse una cultura scientifica che inserì il nostro paese tra le nazioni più progredite nel settore. Pietre miliari furono la nascita di corsi inter-disciplinari: il primo nella nuova Università della Calabria, poi con l’ingegneria ambientale nel Politecnico di Milano. Era il 1989. Nello stesso anno una legge organica introdusse i Piani di Bacino, che anticipò molti aspetti delle direttive europee. Le stesse direttive che oggi sono in larga parte disattese, dopo lo svuotamento di quella legge. E qui cambiò anche la moda, iniziando a proporre in tutto il paese una grandinata di casse di espansione, che è un modo diverso di laminare le piene. In rarissimi casi sono state realizzate, spesso con risultati mediocri sotto il profilo ambientale. E talora anche dubbi sotto l’aspetto idrologico.

Nel frattempo, da un anno all’altro, da un assestamento di bilancio all’altro, mai si è avuta la certezza delle risorse che il paese metteva in gioco per affrontare la questione idrogeologica. In fisica, la predicibilità è la possibilità o meno di prevedere un evento nel tempo e nello spazio: dove e quando. La predicibilità delle ‘meteore’, che solo in Italia chiamiamo bombe d’acqua, è dubbia. Alcuni processi fisici sono caotici e l’incertezza regna sovrana. Ma le politiche e le priorità e le risorse disponibili per la difesa del suolo sono del tutto impredicibili. Insomma, la politica è assai più caotica della fisica. Il fallimento sta tutto qui, nell’impredicibilità delle politiche di difesa del suolo. E nella distanza abissale tra il dire e il fare. I politici si sono talora inventati ‘tecnici della provvidenza’ dopo qualche disastro, ma imputare loro una scarsa dimestichezza con la meteorologia o l’idraulica non ha senso.

Ciò che è mancato è la visione, il disegno del futuro, il progetto e la decisione coerente, prima sotto il profilo culturale e poi, ma soltanto poi sotto quello economico. Un segnale ai tecnici di navigare a vista, a cavallo tra la rincorsa all’utopia e la miseria delle contingenze. Alla gente di invocare i santi. Una politica saggia, dopo i continui allagamenti milanesi prodotti del Seveso negli anni ’70 (5 nel solo 1979) avrebbe detto, prima ai tecnici e poi alla gente: «Nei prossimi 20 anni in Italia potremo dedicare poche risorse alla questione, diciamo non più di 300 milioni di Euro l’anno.». Tecnici e cittadini avrebbero capito che il “rischio accettabile” era molto elevato ma andava accettato.

Nessun tecnico avrebbe proposto soluzioni impegnative e, magari, avrebbe suggerito tecniche di difesa locale, sia a scala di isolato, sia di singoli edifici: misure organizzate di “flood proofing” corredate da una capillare preparazione agli eventi estremi, sia individuale sia collettiva. Tutte cose che costano poco e hanno l’obiettivo di rendere minimo l’impatto degli eventi quando si accetta un alto rischio. Al contrario la politica ha alimentato le illusioni. Tra il dire e il fare c’è andata di mezzo la roba della gente, quando non la vita. E continua ad andarci.

Non c’è dubbio che servano molti quattrini per la difesa del suolo in Italia. Più meno gli stessi previsti dalla Commissione De Marchi nel 1970. Per esempio, nel Genovesato ci vogliono più di 400 milioni di misure strutturali e forse altrettanti per i bacini compresi tra il Ticino e l’Adda. Non sono pochi, ma vanno confrontati con altre voci di spesa pubblica meno importanti e, forse, anche meno urgenti. Un vate del neoliberismo come Oscar Giannino afferma che le tasse di scopo legate all’assetto del territorio e alla difesa del suolo rendono allo Stato circa 3,4 miliardi di Euro ogni anno, più o meno la stessa cifra che il Regno Unito dedica alla difesa del suolo e all’adattamento di cambiamenti climatici, che in gran parte è poi la stessa cosa. E se Giannino tiene conto di tutti i balzelli “verdi”, si arriva quasi a 40. Peccato che l’Italia dedichi a questa voce meno di un decimo delle risorse britanniche.

Come l’Italia sia oggi in grado di spenderli e con quanta efficacia, caso mai arrivassero quei 3 miliardi e più ogni anno, è invece un capitolo tutto da valutare. E con grande attenzione, realismo, onestà. Intellettuale prima di tutto. Per esempio, nel Milanese si vuole l’adeguamento dello scolmatore di Nord-Ovest da 30 a 36 metri cubi al secondo, una miglioria del 20% ma quasi insignificante in termini assoluti. Costerebbe più di 23 milioni di Euro, vale a dire quasi 4 milioni di Euro per metro cubo al secondo: è il record mondiale di costo per unità di prodotto, se si pensa che lo scolmatore genovese costa circa 300 mila euro per metro cubo al secondo e i parsimoniosi cugini liguri, martoriati da terribili alluvioni, lo hanno finora trovato “un po’ caro”. Eppure ai tempi di Albertini una soluzione un po’ più seria (progettata da MM) l’avevano trovata, ma è convenuto a tutti dimenticarla.

Renzo Rosso,

(Ordinario di Costruzioni Idrauliche e Marittime e Idrologia nel Politecnico di Milano dal 1986. Premio Darcy 2010, Premio Borland 2005, Premio Legambiente 2002)



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