19 novembre 2014

MILANO È PIÙ DINAMICA CHE BELLA: FACCIAMOCENE UN PERCHÉ?


Alberto Caruso lamenta che vadano accumulandosi interventi frammentati e discutibilissimi, e ne individua il perché nella mancanza di un’idea di città. Solo che non saprei enunciare in che cosa consista una tale idea di città e chi ne dovrebbe essere la levatrice e quali le procedure per acclararla una buona volta con il comune consenso.

06romano40FBCaro Alberto, il documento più prossimo a un’idea di città è stato per secoli il piano regolatore, con le sue previsioni di come avrebbe dovuto diventare la forma visibile della città, ma a ben vedere poi anche i piani regolatori sono per molti versi rimasti sulla carta perché all’atto pratico molti soggetti non ne hanno voluto sapere e perché in seguito è sopravvenuta un’altra idea di città incorporata in un altro piano regolatore.

Una passeggiata in Corso Garibaldi mostra le tracce degli stretti lotti gotici, degli allargamenti incompiuti suggeriti dai vari piani regolatori, della varietà delle altezze consentite da successivi regolamenti edilizi, dei portici frammentari che avrebbero dovuto accompagnare la ricostruzione dell’intera strada, delle facciate dell’architettura più varia a sottolineare il passare del tempo: così neanche il piano regolatore esprime un’idea persistente della città, salvo nel disegno della nuova rete stradale, quella a Milano tra il 1912 e il 1934.

Quello che invece persiste nei secoli è lo stile di una città: come a veder bene lo stile nell’abbigliamento di una persona resta il medesimo per tutta la vita pur nel variare delle mode, così è per lo stile di una città, e i cittadini di oggi lo apprendono de visu per il semplice fatto di abitarla, nativi o immigrati che siano.

Lo stile di una città consiste in primo luogo in un atteggiamento costante nel rapporto con le proprie periferie, città che collocano i nuovi temi collettivi e i propri progetti verso il centro consolidato della città e città che li collocano oltre i confini del momento.

Nel 1289 Bonvesin de la Riva esalterà la perfetta circolarità di Milano, con la curtis del broletto al centro, e oggi ancora come nel XI secolo le case al centro costano circa tre volte quelle della periferia, perché l’establishment tende da secoli ad abitare entro la cerchia dei Navigli o almeno entro la cerchia dei bastioni. E la forma mentis di Bonvesin è oggi ancora così pervasiva che un nutrito gruppo di maitre à penser vorrebbe scoperchiare i Navigli per rievocare inconsciamente la profezia di Bonvesin.

Sono un sostenitore, in quanto milanese, della battaglia sostenuta da Luca Beltrami alla fine dell’800 per ricostruire il castello sul fondo di via Dante, ma so anche che questa ricostruzione riprende il principio di chiudere il confine della città proprio sulla cerchia dei Navigli, mentre a quei tempi a Parigi la sequenza degli Champs Elysées preludeva alla Défense, viale della Libertà a Palermo apriva la strada a corso Strasburgo e a Mondello, a Monaco di Baviera poi dalla piazza centrale, con il teatro e il palazzo reale, erano state tracciate tre spettacolose prospettive che hanno dato subito senso alle periferie più nuove e lontane.

Negli stessi anni che Bonvesin magnificava la perfetta chiusura di Milano Arnolfo di Cambio disegnava per Firenze un piano regolatore grande cinque volte la città esistente, e se Dante di questa cerchia si lamentava da quel coerente reazionario che era, Cosimo I farà dipingere dal Vasari, duecentocinquant’anni dopo, sulla volta del salone dei Cinquecento a palazzo Vecchio, proprio Arnolfo nell’atto di presentare il suo piano ai maggiorenti, tanto era consapevole di quanto quel disegno avesse contribuito alla bellezza di Firenze.

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Così nessuno prende davvero sul serio il disagio simbolico delle periferie recenti, senza una piazza o una passeggiata a rallegrarle e a insinuare nei loro cittadini il principio di essere cittadini di Milano proprio come quelli che abitano nella cerchia dei bastioni, e tutti sembrano piuttosto inclini a tempestare sui parcheggi nelle aree centrali – problema non così chiaro nelle altre città europee – o a chiudere un concorso per recuperare un cavalcavia.

Lo stile di una città consiste in secondo luogo in una certa parsimonia edilizia, i palazzi dei maggiorenti milanesi architettonicamente modesti – e non a caso il solo palazzo che occupi un intero isolato sarà quello costruito da Galeazzo Alessi per un mercante genovese, il Marino. E quando fu il caso di scegliere un architetto condiviso dalla cittadinanza per la Scala o per palazzo Reale e per molti palazzi nobili, sarà Piermarini l’uomo giusto, con la sue facciate decorate soltanto da lievi e poco pretenziose lesene appiccicate sul muro, niente a che vedere con il palazzo costruito a Napoli dal Barbaja nel 1812 con un’ostentata colonnata a tutto tondo come il Louvre.

Ma questa incertezza nelle decisioni collettive che riguardano la sfera estetica della città hanno a Milano radici lontane, e comportano quei ripensamenti e quei frammenti che per Alberto Caruso sono la manifestazione che manca un’idea di città e che invece sono la manifestazione che lo stile della città è da secoli sempre il medesimo.

Quando Arnolfo di Cambio propone di non costruire a Santa Maria del Fiore il tiburio e la freccia delle cattedrali gotiche ma di rinforzare i pilastri per voltare una cupola di 42 metri di diametro – che non sapeva come realizzare ma era larga quanto il Pantheon, che pure esisteva – i reggitori del comune assumeranno questo rischio culturale e aspetteranno centocinquant’anni per vedere finalmente realizzata questa cupola.

romano_40_2Saranno invece passati soltanto cent’anni quando i milanesi decideranno di costruire finalmente una nuova cattedrale, ma di tenere conto del profumo di rinascimento che veniva da Firenze, non se ne parlerà neppure, sicché ne verrà fuori una sorta di patchwork, i grandi finestroni dell’abside di un architetto transalpino, il seguito del cantiere di maestranze locali, la facciata finita nell’Ottocento e spesso rimpianta.

Lì davanti Piazza del Duomo, una piazza circondata da un’architettura uniforme quando ormai erano passate di moda – nessun’altra città in Europa l’avrebbe più progettata a quell’epoca – sicché poi verrà lasciata a metà lasciandoci a pensare come la potremmo fare oggi per allora.

romano_40_3E il ponte sul parco ferroviario delle Varesina è un altro residuo delle incertezze culturali milanesi, traccia della proposta del gruppo AR nell’autunno del 1945 di tagliare la città con una grande croce di strade – un principio che intendeva protendere i tentacoli di Milano sul suo territorio – una proposta scarnificata nel tempo proprio per questa sua pretesa di oltrepassare la cerchia cittadina, che lascerà tuttavia qua e là delle tracce, per quasi cinquant’anni un sottopasso allo sbocco dell’autostrada dei fiori per entrare nell’asse attrezzato est-ovest, l’allargamento di via Cesariano per il medesimo motivo, questo misterioso ponte sulle Varesine: ecco, non esiste un’idea di città che non consista nello stile maturato nei secoli e condiviso dai suoi cittadini di oggi, e dunque un progetto frammentario su quel cavalcavia rispecchia proprio lo stile di Milano.

E così il disastro dell’infopoint davanti al castello non è altro che la manifestazione contemporanea di una ancestrale incapacità della sfera pubblica di prendere decisioni nella sfera estetica dell’urbs corrispondenti alla sua celebrità in molti altri campi: una città tra i primi posti nel mondo per quanto sia attraente per la sua vitalità ma non certo per la sua bellezza.

 

Marco Romano

 



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