19 novembre 2014

UNA CASA PER TUTTI: UN PASSO VERSO LA CIVILTÀ


Guardando le realizzazioni di edilizia popolare a Milano, a partire dalla legge Luzzatti del 1903, si ha la triste impressione che la necessità di dare la casa a masse di immigrati che negli anni, soprattutto sessanta e settanta, si trasferivano da sud a nord del paese, sia stata una scusa per costruire male. Dietro quelle soluzioni massificanti s’intravedono le ideologie di quegli anni che oggi, a quaranta, cinquant’anni di distanza, mostrano tutta la loro usura e le conseguenze nefaste sulla vivibilità di quei quartieri: la fiducia acritica nel progresso tecnologico e nei nuovi materiali, nella prefabbricazione pesante, nell’urbanistica dello zoning, e di conseguenza della semplificazione e del riduzionismo, hanno generato l’emarginazione reale e simbolica delle nostre attuali periferie.

11spada40FBIl termine stesso “casa popolare” è un errore storico che stiamo scontando a caro prezzo. Il bisogno di casa non dovrebbe essere etichettato in base al censo o alla classe sociale e suddiviso in localizzazioni più o meno separate, questo ha determinato la periferizzazione di masse di cittadini che oggi siamo impegnati a sanare. Questa necessità in teoria non dovrebbe essere oggetto di affarismo e speculazione ma al contrario avere la garanzia di soddisfazione per tutti in quanto la casa è necessaria allo sviluppo psicofisico dell’individuo. Questo si scontra con la realtà del mercato immobiliare ben lontana dalle finalità sociali e di mutuo soccorso.

Il bisogno di casa invece, come si sa, fin dai tempi antichi è sempre stato oggetto di grandi speculazioni, anche se il fenomeno delle periferie è un tipico prodotto della città moderna industriale: nella città antica infatti le classi povere abitavano case povere ma all’interno delle mura mescolate alle dimore dei signori di cui erano al servizio. A fronte della nascita dell’industria con le sue esigenze di mano d’opera nasce a fine ottocento anche in Italia il problema di dare rifugio abitativo a un gran numero di lavoratori immigrati dalle campagne.

Nasce così il mondo cooperativistico e filantropico che vuole dare la casa alle masse di diseredati e si moltiplicano le proposte più o meno utopiche, vedi i quartieri modello dell’Umanitaria o i progetti di quartieri residenziali. La città giardino, prevista in Porta Vittoria e realizzata solo in parte nelle casette dei ferrovieri in via Lincoln, ne è un esempio. Oggi quel villaggetto appare perfettamente integrato nel tessuto cittadino ed è diventato un luogo privilegiato abitato da ricchi intellettuali.

Leggendo dunque la storia di quegli anni ci si rende conto che quanto ai bisogni non è cambiato molto da allora. Sono nati, è vero, gli IACP (oggi Aler) ma contemporaneamente è aumentata in maniera esponenziale la domanda di case a bassi costi e oggi, dopo il trasferimento delle industrie, in una tendenza alla terziarizzazione della città, le classi meno abbienti sono mutate: oltre a una fascia consistente prevalentemente composta di extracomunitari immigrati in grado di accedere ai bandi per le case popolari ve n’è una più cospicua di persone, per lo più giovani ma non solo, che non hanno un reddito adeguato per il libero mercato. Nel frattempo le periferie, generate dalla politica dell’edilizia pubblica anni ’60 e ’70 con concezioni riduttive e magniloquenti, sono sempre più invivibili.

In realtà dal punto di vista abitativo Milano risulta una città a bassa vivibilità: a fronte di un centro che si è completamente terziarizzato con funzioni forti, uffici di rappresentanza, banche, commercio di lusso e spettacolo, dove abita una percentuale molto bassa di privilegiati si riscontra una fascia periferica, che ormai ingloba i comuni di prima cintura, dove risiede la maggior parte della popolazione, spesso in condizioni di disagio per la mancanza di servizi e di vita comunitaria. Si ha un generale degrado rispetto a quella che un tempo era una normale vita cittadina e il problema del traffico e dell’inquinamento nascono proprio da questa città rifiutata.

Essa, anche alla luce di una urbanologia influenzata dalla riflessione ecologica, va concepita come un insieme di sistemi interconnessi che, come negli organismi viventi, influiscono uno sull’altro: la complessità è bellezza e tutto ciò che si semplifica decade. Non si possono separare le funzioni dell’abitare senza arrecare grave danno alla qualità della vita. Con la concezione riduttiva, meccanicistica e massificante dei decenni scorsi oggi abbiamo il problema di periferie da riqualificare più che quello di costruire nuove case. L’ecologia dell’abitare è nata proprio in ragione di dare una risposta a questi eccessi e di conseguenza le case “popolari”, o meglio a bassi costi con finalità sociali, dovrebbero essere programmate per risolvere queste contraddizioni anziché aumentarle. La sostenibilità bioecologica delle funzioni urbane dovrebbe dirigere le scelte.

La casa, in questa ottica, appare come lo spazio della vita e quindi, ormai lontana dalla definizione di “macchina per vivere”, ritrova una dimensione perduta che ha una notevole valenza sulla salute psicofisica dell’individuo. È assolutamente inconcepibile che in un paese civile siano ancora ammessi sfratti coercitivi e vi siano ancora bisogni così insoddisfatti da arrivare a numerosi episodi di abusivismo dovuto a norme anacronistiche e infinite lungaggini burocratiche.

Maurizio Spada



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