5 novembre 2014

EUROPA E UNITÀ POLITICA: FINIRÀ LA SOFFERENZA?


Una persona competente ci informa sul virus ebola (se lo conosci lo eviti) e gli allarmi lanciati da Antony Banbury, capo missione ONU in Africa Occidentale, e Christine Lagarde, direttore Fondo Monetario Internazionale, rispettivamente per la diffusione del virus (a velocità di jet) e il contagio economico (a velocità della luce, quella delle borse).

09gario38FBBanbury e Lagarde combattono ebola prospettando a big pharma il ricco mercato, che l’Africa non è, di USA e Europa, dove il virus è comparso a Dallas e Madrid. Se impresa e lavoro da anni sono valutati solo sulla base di quanto rendono a breve, ora lo è la vita di tutti noi, potenziali vittime del virus. Per impresa e lavoro a costo della qualità della vita, per noi a costo della vita stessa. È greed economy, economia dell’avidità.

Intervistato da Tuvia Tenembom, un top manager di Bank of America Merril Lynch a Francoforte non ammette però di essere avido: «Sarebbe avvilente» [Ho dormito nella camera di Hitler. Viaggio di un ebreo americano alla scoperta della Germania, 2014, p. 161]. Per non avvilirci tutti con la nostra inconfessabile avidità, dobbiamo ridimensionare i (dis)valori che la generano: potere, status, autosufficienza, frenesia, piacere. In Europa questi (dis)valori sono maschili, perché le donne sono meno egoiste, anche se più spesso disoccupate o impiegate in lavori meno qualificati e pagati; poco presenti nella politica istituzionale, sono molto attive nella politica di base (petizioni, boicottaggi, …). È così in ogni paese dell’UE, povero e ricco, di nuova e vecchia democrazia, sud e nord, est e ovest: uomini e donne hanno orientamenti e comportamenti più egoisti gli uni, più altruisti le altre [Silke I. Keil e Oscar W. Gabriel, Society and Democracy in Europe, 2013, conclusioni].

Il momento è straordinario. L’unione economica e monetaria prefigura l’unità politica necessaria per l’economia e democrazia non solo nostra. L’errore dei governanti europei che nei due secoli passati hanno soffocato nel sangue le rivolte democratiche di sudditi che volevano essere cittadini, è ripetuto oggi dai governi autoritari nell’Oriente europeo, mediterraneo, asiatico. In particolare Putin teme la vicina democrazia UE più della lontana ex superpotenza USA, perciò finanzia i nazionalisti populisti e radicali che odiano l’unità europea [The Economist, 19/04/2014, p. 24].

Stiamo costruendo, per tentativi e errori, una democrazia fondata non più su Stati sovrani, ma su una unione regionale post-nazionale di impronta cosmopolita, ispirata alle norme internazionali e ai diritti umani. Che per funzionare, però, deve dotarsi dei requisiti democratici dell’autonomia e della responsabilità [Eric O. Eriksen e John E. Fossum, Rethinking Democracy and the European Union, 2012, conclusioni]. Vale a dire, darsi un governo invece del consiglio di premier nazionali, rissosi e impotenti perché tali sono gli Stati nazionali nel mondo unificato da tecnologia, finanza, mercati globali, migrazioni spontanee o forzate e, non da ultimo, epidemie.

Tra le condizioni che Eriksen e Fossum ritengono necessarie per una Europa democratica e unita, le organizzazioni delle donne sono parte costitutiva di una società civile autonoma e transnazionale che dibatte pubblicamente e offre molti punti di accesso (non solo i soldi). E, col consenso, dà forza alle decisioni di qualità e a una identità collettiva meno gerarchica di quelle statuali, più fluida perché cosciente di quanto contino la sicurezza e le garanzie sociali per l’eguaglianza.

Con il particolare contributo delle donne, l’opinione pubblica europea subentra a quelle nazionali, ormai inconsistenti e incapaci di uscire dalla “camicia di forza” globale che blocca la politica. Così scrive Wolfgang Streeck, secondo cui «prima che nuove istituzioni democratiche riportino i mercati sotto il controllo della società […] saranno necessarie ampie mobilitazioni politiche e lunghe turbolenze dell’ordine sociale attualmente in formazione» [Le Monde des Livres, 10/10/2014, p. 7]. Inclusa la turbolenza di borse atterrite dal declino (annunciato) dell’economia tedesca, finora sugli altari, e di quella americana; dalla caduta dei prezzi del petrolio, nonostante le guerre in corso; e soprattutto dalla fine della espansione monetaria USA, che in questi anni ha drogato le borse di tutto il mondo. Infine, la Grecia vuole anticipare l’uscita dal programma di aiuti del Fondo Monetario Internazionale, garanzia degli investitori. Insomma, le borse mondiali vogliono soldi senza rischi, se va male pagano le banche centrali. A New York un trader oggi guadagna il 15% in più del 2013 con un salario medio quintuplo degli altri settori (era il doppio nel 2012) [Le Monde Économie et Entreprise, 15/10/2014, p. 6].

Come sempre, anche l’apprendista stregone finisce vittima del suo sortilegio, ma rifiuta di perdere il potere, lo status, l’autosufficienza, la frenesia, il piacere che ne fanno l’icona di una generazione. Appunto i disvalori arginati, in Europa, dai diversi orientamenti e comportamenti dell’altra metà del cielo. È questione di mentalità, non di quote rosa, nella Europa madre delle rivoluzioni di cui molti anni fa l’austriaco Friedrich Heer ci ha dato la cifra: «il salto». «Il salto» necessario per non cadere nel vuoto provocato dalla distruzione dell’esistente ordine socio-politico. In avanti o indietro.

«Il salto» che oggi stiamo per compiere dopo avere distrutto le basi culturali e legali del nostro mondo, sulla scia di una forza unificatrice tecno-economica senza precedenti, a scala globale e con armi finanziarie, per ora senza la mediazione di una terza guerra mondiale dichiarata. Si vede già il possibile salto indietro: «Se trovate implausibile una storia in cui Marine Le Pen porterà la Francia fuori dall’euro e dall’Unione Europea, ditemi qual è il vostro scenario», scrive il premio Nobel Paul Krugman (Il Sole 24Ore, 19/10/2014, p. 7). Non a caso, Le Pen è la più grossa leva (anti)europea di Putin. Si vede anche il necessario salto in avanti: l’UE governata nel segno della solidarietà di cui le europee danno ogni giorno prova.

In questi anni di globalizzazione Jacques Le Goff riflette sui periodi in cui abbiamo diviso la storia e conferma gli studi che fanno iniziare i tempi moderni nella seconda metà del Settecento [Il tempo continuo della storia, 2014, p. 131]. Tempi nei quali la sovranità, con le sue responsabilità, è delle unioni di cittadini democratici e non dei re, neppure in forma di Stati e di organismi internazionali.

Ancora una volta, è solo questione di tempo, e di gradi di sofferenza.

 

Giuseppe Gario



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