5 novembre 2014

sipario – MILANO MI HA DIMENTICATO


 

MILANO MI HA DIMENTICATO

INTERVISTA A LUIGI LUNARI

 

Luigi Lunari è nato a Milano nel 1934, ha vissuto da protagonista l’avventura del Piccolo Teatro, come stretto collaboratore di Giorgio Strehler, ha scritto testi che sono tuttora rappresentati in tutto il mondo, eppure in Italia è messo in scena pochissimo. Come mai? Non lo so. Forse aspettano che muoia. Io ci ho anche pensato, questa primavera, al suicidio. Non un suicidio violento, eh, ma una morte dolce: mettermi a letto e aspettare la fine. I miei figli sono grandi, i nipoti pure, ho scritto tutto quello che dovevo scrivere e quindi … poi mi sono venute un paio di idee, mi sono dedicato a quelle e mi è tornata un po’ la voglia di fare. Però se fossi morto avrei fatto un favore alle mie commedie. Ci sono attori settantenni – non faccio nomi – che mettono in scena testi di loro coetanei solo perché adesso sono morti, non si sarebbero mai sognati di farlo finché erano vivi.

sipario38FBE Milano? Milano è la mia città, ma negli ultimi vent’anni mi ha completamente ignorato. Nessun teatro milanese ha prodotto un mio testo. Testi che sono rappresentati dappertutto, tranne qui. Nel 1994 ho avuto un lancio internazionale con la commedia Tre sull’altalena che ha avuto un grande successo al Festival di Avignone, e da lì è stata tradotta in ventitre lingue e viene correntemente rappresentata in tutto il mondo. In un teatro di Praga è anche diventata parte del repertorio e sono sedici anni che la fanno tutte le stagioni. Die Welt nel 1996 ha scritto: “Questo elegante capolavoro ha la qualità per diventare un classico del repertorio contemporaneo“. Il Diario de Noticias di Lisbona ha scritto: “Tutto lo humour del teatro europeo del XX secolo si ritrova in questa commedia: una sorta di trattato filosofico esistenzialista quasi fosse scritto da Fo“. Poi anche altre opere come Nel nome del Padre, Il senatore Fox e Sotto un ponte, lungo un fiume … hanno avuto grandi riscontri, traduzioni e allestimenti un po’ dappertutto. Io non mi lamento perché ogni anno le rappresentazioni dei miei testi aumentano e i diritti d’autore sono sempre di più. Però mi dispiace che i teatri milanesi facciano finta che io non ci sia.

Questo secondo lei a cosa è dovuto? Io non voglio per forza essere in cattiva fede. Secondo me, semplicemente, mi hanno ignorato quando ho avuto successo a livello internazionale, e prendermi in considerazione adesso sarebbe come ammettere che si erano sbagliati. E questa è una cosa che a nessuno piace fare. In più, il problema grande, secondo me, è che molti artisti del teatro italiano non leggono. Anche in questo caso non faccio nomi ma alcuni lavorano come attori, registi, magari anche autori, poi fanno cinema, pubblicità e partecipano agli eventi pubblici. Io non riesco a immaginarmeli seduti nel loro studio che leggono un copione. E questa è una grave mancanza. E poi io, diciamoci la verità, vengo ignorato perché non ho niente da dare in cambio. Non ho un mio teatro in cui ospitare spettacoli altrui, e finora il sistema dei grandi teatri ha sempre funzionato così, con gli scambi. Io posso offrire solo le mie commedie, e in un sistema come il nostro è troppo poco.

Però ci sono anche alcuni autori quarantenni che – seppur poco e seppur molto meno rispetto all’estero – vengono comunque prodotti e messi in scena. Sì, è vero.

Crede sia anche una questione storica? Forse nell’ultimo decennio c’è più attenzione verso la drammaturgia contemporanea. Mentre invece gli autori italiani che hanno avuto il loro periodo di maggior produzione negli anni ’70, ’80 e ’90, come lei, sono stati snobbati perché l’idea stessa di autore drammatico veniva rigettata in favore di creazioni collettive o affidate a un regista demiurgo che re-interpretava testi classici. Sì, c’è un’intera generazione di autori snobbati dal teatro italiano, come Balducci, Sarzano e Parodi, che io ho fortemente voluto al Piccolo e che in certi casi – anche grazie al mio lavoro – sono stati messi in scena, però non hanno avuto il risalto che avrebbero meritato. Io credo che il fattore storico, però, sia da ricercare ancora prima: l’Italia del dopoguerra veniva da un ventennio fascista autarchico e nazionalista, e aveva una gran voglia di sentirsi europea, occidentale, americana. Perciò siamo diventati improvvisamente e incondizionatamente esterofili: tutto quello che veniva dall’estero era bello, meritevole e interessante, quello che veniva dall’Italia invece era robetta. È un pregiudizio che è difficile togliersi dalle spalle.

Non credo che ce lo siamo ancora tolto. No.

Cos’è stato che ha fatto finire il rapporto con Strehler? Il nostro disaccordo è nato quando io gli ho proposto di aprire il Piccolo ad altri registi. Erano anni in cui gli spettacoli diretti da lui si stavano diradando, e io ero convinto – lo sono ancora – che fosse necessario chiamare altri registi importanti per avere ogni anno produzioni nuove. Ma lui si limitava ad appaltare alcuni lavori minori ai suoi assistenti, senza pensare davvero di coinvolgere qualcun altro. Perché il Piccolo era una sua creazione e lui voleva che rimanesse solo suo.

Queste cose io gliele ho dette tante volte in privato – fra di noi non c’era amicizia ma c’era una grande stima – e lui non mi ha mai ascoltato. Quando poi le ho dette in pubblico e la stampa ha montato il caso, i nostri rapporti si sono rotti. Mi ha anche fatto causa. Una causa da nove miliardi di lire. Io gli ho fatto dire da un amico comune che “nessuno dei due farà in tempo a vedere quei soldi“. Infatti lui è morto. E anche io non resterò qui ancora tanto. Comunque su questi argomenti ho anche scritto un libro, Il maestro e gli altri, pubblicato da Book Time.

In cosa si sente diverso dagli autori più giovani di lei? Nella cultura. Tra i giovani drammaturghi noto sempre – anzi, quasi sempre, giusto per non generalizzare – una grandissima ignoranza. È evidente che non hanno letto un cazzo. Non hanno letto i classici greci, le laudi medievali, la commedia del Rinascimento, gli elisabettiani, eccetera. Io invece ho letto tutto quello che potevo. E saprei scrivere una scena à la manière di Goldoni, Shakespeare, Cechov, Ionesco. Una volta con Strehler ho scritto un prologo a un atto di Shakespeare e lui non si è accorto che non era di Shakespeare. I giovani autori invece non percorrono questa strada, non traggono insegnamento dal passato. E sbagliano.

Come vorrebbe che fosse la scena teatrale italiana fra vent’anni. Non lo so, non prendo più impegni a lungo termine (ride). Quello che dovevo fare l’ho fatto.

Emanuele Aldrovandi

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi e Domenico G. Muscianisi

rubriche@arcipelagomilano.org



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