29 ottobre 2014

QUESTIONI DI DENSITÀ: CAPACITÀ UMANE PER METRO CUBO


La questione. A Rotterdam tra giugno e agosto si è tenuta la Biennale di Architettura (http://iabr.nl/en) sul tema “Urban by nature“. Essa ha affrontato (brillantemente) la questione di una visione della progettazione nell’attuale epoca dell’Antropocene (www.anthropocene.info), ossia di una progettazione che parte dalla supremazia delle risorse naturali e propone soluzioni di convivenza fra il patrimonio di risorse naturali e gli interventi dell’uomo. Di conseguenza la prospettiva della progettazione urbana non è sognare improbabili ritorni a un passato incontaminato di pura immaginazione, né il ricorso alle semplici ricette del novecento, quindi non è nella densificazione, né nella definizione di artificiali delimitazioni di confini, né in improbabili battaglie contro lo sprawl, ma nella consapevolezza che un gran numero di abitanti vive e vivrà nella città diffusa come conseguenza della continua diminuzione della densità media oggi in atto.

06longhi37FBQuesta affermazione è confermata da una serie di studi macro fra cui quelli della World Bank (Angel, Shepherd, & Civco, 2005) in 120 città del mondo. La ricerca rileva che la popolazione urbana negli ultimi 20 anni è cresciuta dell’1,7% annuo, contro una caduta della densità del 2,2%, per una crescita dell’impronta del 3,3%. È decisivo perciò esaminare il potenziale delle città a bassa densità, che Willem Jan Neutelings definisce ‘Carpet Metropolis‘, o città mosaico, e Bernardo Secchi “città diffusa”. Di conseguenza dovremo imparare a gestire creativamente la morfologia del tappeto urbano, intendendo questa realtà un eco-spazio, in cui stimolare l’integrazione dei flussi:

– ottimizzando il suo metabolismo e finalizzando la progettazione alla riduzione dell’impronta ecologica;

– aumentando il sapere e stimolando l’innovazione, per facilitare l’accesso alle risorse, alla conoscenza e alla creatività, per rendere le città più sostenibili;

– promuovendo forme di governance flessibili e capaci di operare in rete con altre città.

Luca Beltrami Gadola di fronte a questo scenario mi pone il seguente quesito: “oggi mi sembra che almeno qui da noi stia passando un messaggio che indica nella densificazione la strategia per combattere i consumo di suolo. Mi sembra una posizione diametralmente opposta a quella della Carpet Metropolis. È possibile in qualche modo conciliare queste due posizioni?“.

La risposta. La crescita del consumo di suolo è generata da due diversi processi: il consumo irresponsabile di risorse effettuato dalle popolazioni che dispongono di grandi ricchezze e la crescita tumultuosa delle megalopoli con le loro baraccopoli, generata dal gran numero di poveri che compone i sette e più miliardi di uomini che abitano il pianeta. Il risultato di questi processi è l’abbassamento della densità insediativa accompagnata dalla crescita dell’impronta ecologica. Ovviamente la ‘carpet metropolis‘ non è univocamente classificabile, essa non è spiegabile in termini dualistici tipo alta densità versus diffusione, ma attraverso la complessità dei sistemi cognitivi che ne determinano la struttura, e di conseguenza la geografia. Quest’ultima comprende le morfologie della diffusione, della ‘manhattanizzazione’, oggi di moda, dello shrinking, ossia del declino urbano. Ma bisogna essere consapevoli che gli attuali modelli insediativi sono insostenibili, a politiche costanti, per la loro incompatibilità con la disponibilità limitata di materia ed energia. Di conseguenza la forza guida con cui sviluppare la città trasla dalle risorse fisiche alle risorse umane, ossia all’investimento in cultura, socialità e innovazione.

Da qui l’invito dei curatori della biennale di Rotterdam a superare le semplificazioni dualistiche che hanno segnato l’inefficienza operativa della storia dell’urbanistica novecentesca: la dicotomia città campagna (il tappeto metropolitano è un continuum di città e campagna), case alte-case basse (la morfologia urbana è costituita da un insieme di case alte e basse), densificazione contro sprawl (è rimasto uno slogan, di fronte all’avanzata globale dello sprawl), cintura verde contro diffusione (il più grande insuccesso della cultura urbanistica: il ‘verde’ è un alternarsi di flussi e di nodi, quindi non è riducibile a una figura geometrica chiusa).

I curatori si allineano al principio fondamentale della progettazione contemporanea: evitare le analisi semplici e le scelte lineari, perché come sostiene il padre della modellistica contemporanea Jay Forrester (padre del modelli dinamici ai diversi livelli: dell’impresa, della città, e globale) portano al collasso dei sistemi (sociali, territoriali economici) che funzionano per iterazioni multiple. Quindi la progettazione urbana non deve limitarsi alla manipolazione delle superfici secondo regole pre-codificate, ma deve essere un bricolage di scienze tese a spiegare la complessità della città e a sperimentare soluzioni innovative.

A questo punto si può assumere come parametro guida della progettazione la densità, ma essa trasla dalla storica densità in metri cubi, ossia in risorse fisiche, a una densità in sapere e innovazione, quindi determinata dalle capacità delle risorse umane. L’unità di misura del progetto urbano diventa la quantità di capacità umane per metro cubo. È questo un processo che in Europa ha preso l’avvio con il programma Metricity promosso nel 2007 da Paul Clarke, con la partecipazione, fra gli altri di Arup, e consolidatosi con l’approccio dell'”open innovation” fortemente sostenuto dall’Unione europea.

Lo sviluppo della città secondo questo approccio è determinato dalla sua capacità di attrarre nuove conoscenze per accelerare i processi innovativi che diminuiscono il consumo di risorse, aumentano l’autonomia energetica e alimentare e la resilienza. Il concetto di densità delle idee si rivela così un ottimo vettore per chi voglia seriamente affrontare i problemi dello sviluppo, non solo urbano, a condizione di rinnovare il modello di governance. Infatti, il progetto come ‘bricolage‘ segna il declino dei piani, che hanno segnato la storia della progettazione nella seconda parte del novecento, a favore della morfologia della piattaforma aperta e collaborativa. È questo un invito alle nostre istituzioni e corporazioni ad abbandonare i loro comportamenti settoriali e datati a favore di pratiche collaborative, aperte alle reti di relazioni internazionali.

 

Giuseppe Longhi



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