14 settembre 2009

LA CARICA DEI CENTO E LODE


Verso i primi d’agosto un singolare dibattito ha rapidamente coinvolto gli organi di informazione del Paese: la distribuzione territoriale dei 100 e lode, voto massimo dell’esame di Stato premiato con un assegno di 1000 €, ha suscitato scalpore e, soprattutto in certi ambienti, una forte irritazione. Infatti, le regioni più premiate, direi quasi sommerse da tale risultato di eccellenza sono state le regioni del Mezzogiorno. In termini assoluti ha trionfato la Puglia (523 casi), seguita dalla Campania con 388 studenti; in termini percentuali domina la Calabria che, con 289 studenti con lode, premia l’1,7% dei candidati all’esame di Stato (contro una media nazionale dello 0,9%). Il caso più clamoroso è rappresentato dal liceo classico «Gioacchino da Fiore» di Rende (Cosenza) dove ben 24 studenti hanno portato a casa il voto d’eccellenza, cioè ci sono stati più 100 e lode che in tutta la città di Milano, dove ci si è fermati complessivamente a meno di venti.

Subito la polemica ha assunto i contorni dell’ormai consueta querelle tra Nord e Sud, offrendo spazio a tesi di vario tipo, dall’affermazione generica che al Sud si regalano i voti e che al Nord si è un po’ troppo severi, a quella fondata su una sociologia un po’ approssimativa secondo cui al Sud si studierebbe di più perché ci sono meno occasioni di divertimento e scarse possibilità di lavoro. Affermazioni che contengono piccole dosi di verità e forse qualche luogo comune di troppo.

Ora, passato un po’ di tempo dagli “eventi” e fatta salva l’onestà individuale di esaminatori ed esaminati forse si può tentare un’analisi meno di parte e partire da qui per cercare di affrontare uno degli aspetti più dolenti e fondamentali della scuola italiana: quello della valutazione.

In generale nel nostro Paese è ancora scarsa la concezione della valutazione come misurazione di un processo che ha prodotto un risultato. Il voto è considerato sostanzialmente un premio o un castigo, come dimostra anche l’enfasi posta dall’attuale ministro (e dai mass media che la seguono in maniera acritica anche quando non dice proprio niente di mirabile) sul “ritorno ai voti” come prova del ritorno della serietà nelle aule scolastiche. La sciagurata decisione, poi, di calcolare anche il voto di condotta nella media – concetto già di per sé letale per la trasparenza della valutazione – trasforma sempre più il punteggio in un giudizio sulla persona, esaltando una concezione paternalistica del voto.

Stando così le cose è chiaro che nel contesto socio-culturale meridionale, in cui l’impronta familistica e paternalistica è più forte, il voto complessivo usato come premio sarà più diffuso (è un bravo ragazzo e diamogli il massimo anche se non sa proprio tutto), laddove invece sarà più alto il valore dell’efficienza il voto complessivo costituirà un handicap (se non sa proprio tutto non possiamo dargli il massimo anche se è un bravo ragazzo).

Come ovviare a questa situazione? Sicuramente non con rivendicazioni localistiche, cioè riservando le cattedre a insegnanti della regione o delle immediate vicinanze. Al contrario ritengo che sia opportuno tornare ad un saggio meccanismo, purtroppo modificato un paio di decenni fa col solo obiettivo del risparmio: le commissioni dell’esame di Stato dovrebbero essere formate da insegnanti provenienti da diverse regioni e soprattutto il presidente della commissione non dovrebbe risiedere nella città sede d’esame. Attualmente i commissari sono per metà insegnanti della classe esaminata e per l’altra metà provengono da scuole della provincia d’appartenenza della scuola: questa composizione favorisce, soprattutto nei centri medio-piccoli un intreccio di conoscenze, di frequentazioni e di convenienze obbiettivamente poco trasparente. La modifica della commissione giudicante potrebbe essere messa in campo rapidamente, beninteso se fossero disponibili le risorse finanziarie per il rimborso delle spese.

Ma il vero rimedio, a mio parere, dovrebbe essere la modifica radicale dei modi di organizzazione e degli strumenti di valutazione almeno di tutto il triennio finale. Partiamo da una costatazione ovvia: nessun idraulico rifarebbe l’impianto di un intero palazzo se in un appartamento un tubo perdesse, e allo stesso modo non lascerebbe un tubo difettoso con la buona ragione che nel resto del palazzo tutto funziona bene. Ovviamente interverrebbe sulla parte difettosa per ripararla.

Comportamento logico per chiunque e in ogni attività, tranne che per la scuola: qui le carenze, poniamo, in matematica e in inglese possono costringere lo studente a ristudiare anche italiano, diritto o storia, che pure nel corso dell’anno aveva appreso benissimo; viceversa gli insegnanti potrebbero essere indotti a promuoverlo all’anno successivo anche se continuasse ad avere carenze in una –due materie, qualora fosse sufficiente in altre.

Io penso che per avere una valutazione il più possibile fondata sull’effettiva verifica dei risultati e sulla competenza e responsabilità dell’insegnante sia necessario tagliare il nodo gordiano della classe come livello unico per tutte le discipline e andare nella direzione di piani di studio e percorsi di apprendimento più personalizzati. Questa è la strada intrapresa da altri Paesi europei; purtroppo il regolamento sulla valutazione emanato proprio in questi giorni dal ministro Gelmini va esattamente in senso contrario.

 

Vincenzo Viola

                                



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